Un gruppo eterogeneo di artisti riflette sull'arte dell'attore. Ribadendo come lo scarto tra un teatro che ricerca e uno che si accontenta sta nella scelta di mettere in giorno la propria biografia
Una delle ambizioni di «Perdutamente» è di creare non solo momenti performativi, ma anche momenti di riflessione. Uno di questi è il “tavolo dell’attore”, che in queste settimane ha radunato un gruppo eterogeneo di artisti che cercano di ragionare attorno all’arte del recitare e alla presenza scenica. Tra i partecipanti ci sono Manuela Cherubini e Luisa Merloni di Psicopompo Teatro, Diana Arbib dei Santasangre, Andrea Baracco, Francesca Macrì e Andrea Trapani di Biancofango, Federica Santoro, Fabrizio Pallara. Tante idee diverse di teatro, tanti approcci diversi che sono anche biografie artistiche diverse tra loro.
E è proprio l’aspetto della biografia che mi ha colpito durante la riunione del tavolo a cui mi è capitato di assistere. Al centro della discussione non c’erano linee teoriche da discutere, ma esperienze pratiche messe a confronto. Uno dei fulcri del discorso era la seduzione. Per qualcuno, come Manuela Cherubini, l’attore è un soggetto seduttivo ed è in questo senso che la sua presenza è una fatto reale, tangibile, qualcosa cioè che “non si può fare a meno di guardare”. A questa idea faceva da contrappunto la sensazione opposta di Federica Santoro, che affermava di accorgersi che in scena “qualcosa funziona” più che altro in relazione con sé stessa, quasi a prescindere dal pubblico: la sensazione di abitare un tempo e un luogo in modo preciso, consapevole.
Le parole di Andrea Trapani, di colpo, hanno rovesciato il discorso. Ricordando come in fondo anche la stessa scelta di fare teatro abbia a che fare con il proprio ruolo nel mondo. Con il desiderio di piacere, e dunque di sedurre. Con l’irriducibile necessità di acquisire una posizione rispetto agli altri, una posizione che sia in grado di definire la nostra identità. E, magari, di ridefinirla, mettendola in discussione. All’interno della riflessione sulla presenza scenica del corpo dell’attore, fa così capolino la biografia. Che è, inevitabilmente, uno degli strumenti irrinunciabili per chi si mette in cammino sulla via incerta della ricerca artistica, fuori dal cammino già tracciato del mestiere e dei metodi.
È perfino banale constatarlo, ma è proprio qui che sta lo scarto tra il teatro che cerca e quello che si accontenta. Sta nel fatto di mettere in gioco la propria biografia per cercare di inventare qualcosa che si sostituisca a ciò che non ci soddisfa più, sia esso un linguaggio estetico o una politica culturale. Sta nella pratica di “fornire soluzioni biografiche a problemi sistemici”, per dirla con il sociologo Ulrich Beck – che però chiosa ricordandoci che non è nel singolo, ma nella collettività, che risiede la possibilità di un cambiamento. Oggi però è un’intera generazione a disporre esclusivamente della propria biografia come punto di partenza per pensare il mondo (e l’arte). Un gesto che, sempre più, si sta traducendo in partica.
[musica consigliata per la lettura: La valigia dell'attore – Francesco de Gregori]
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