Spuntano postazioni di lavoro lungo i corridoi, dove si alternano lavori artigianali, occupazioni digitali, immaginazioni progettuali sotto coni di luce ora forti, ora fievoli, ora lividi. Proviamo a raccontarli come un insolito piano sequenza
In questi giorni il Teatro India comincia a sembrare più popolato. Si alternano i gruppi delle scuole venuti per i laboratorio di Biancofango a quelli di studenti delle medie che si confrontano con il Moby Dick del Teatro delle Apparizioni. Altri laboratori, per artisti stavolta, si affastellano nel calendario e riempiono e svuotano le sale con una regolarità che non ha più nulla a che vedere con l’atmosfera dilatata e sonnacchiosa dei primi giorni della Factory. Anche altre compagnie che finora era state meno presenti, per impegni che le tenevano altrove, cominciano ad affacciarsi alle riunioni.
E le riunioni, così slabbrate e senza un centro all’inizio, sembrano ora ridursi, asciugarsi, limitarsi a una serie di problemi pratici. Non più un unico tavolo centrale dove si discute, ma tante postazioni di lavoro sparse per gli snodi dello spazio. Provo ad affrescarne una carrellata ipotetica. Se MK e Artefatti sono intenti a portare avanti i rispettivi laboratori nelle sale principali, nel frattempo al tavolo centrale Daniele Timpano ed Elvira Frosini guardano il risultato dei loro video sugli zombi, usciti dal loro laboratorio “Corpo morto”. Seguendo il percorso del corridoio, davanti al bagno ci si imbatte in una luce potente, resa rossa e oleosa da una gelatina. Di colpo quello scorcio di corridoio sembra avvolto in un’atmosfera lynchana. Ma basta andare poco più oltre per tornare alla luce normale. Girando l’angolo, ci si imbatte in Luca Brinchi dei Santasangre, seduto accanto a Riccardo Fazi dei Muta Imago, entrambi intenti a lavorare. Gli occhi bassi sul laptop, Riccardo immerso in grosse cuffie per l’ascolto, un mixer sul tavolo forse connesso al loro lavoro. L’apertura di Dicembre si avvicina di giorno in giorno, il lavoro da finire è tanto, le facce di tutti si disegnano di maggiore concentrazione.
Oltre la porta che fa da diaframma al corridoio c’è ancora un altro tavolo e un’altra postazione. Claudia Sorace è intenta a costruire cubi ed altre forme geometriche con il cartone, compone scritte, le ritaglia e le traccia con degli stancil artigianali. Non è ancora chiaro (a chi scrive, ma lo scopriremo) cosa stia facendo, ma concordiamo entrambi sul fatto che l’atmosfera ci riporta di colpo alla scuola elementare, a quell’artigianalità dei giochi e delle parole. Anche i soffitti, così alti, ci mettono il loro contributo nel farci sentire improvvisamente più piccini (chi non è mai tornato nella propria scuola materna, provando la strana vertigine di riconoscere i luoghi ma di “sentirli” rimpiccioliti, quasi fossimo un’Alice diventata di colpo gigante, lo faccia di corsa e capirà a cosa mi riferisco).
Proseguendo nel lungo corridoio bianco e vuoto, in fondo si nota una poltrona di tipo settecentesco, coi rivestimenti in rosso e i legni stuccati. Accanto c’è una lampada, poi più nulla. Sembra una visione surrealista, e invece qualcuno era intento a riverniciarla e ha lasciato lì il suo lavoro, magari per un pausa caffè. Ancora una porta diaframma e si viene colti da un luce azzurra, che getta di colpo il nuovo corridoio in un’atmosfera bagnata. In fondo si scorge la luce solare e la vegetazione che circonda India, attraverso una porta lasciata aperta. Viene ancora in mente Lynch, e non sarebbe strano a questo punto veder spuntare il nano di “Fire, walk with me”, attraversando la voce irreale di Jimmy Scott. Non accade, ma salendo le scale verso la sala C, ci si imbatte in personaggi altrettanto improbabili. Jacopo Fulgi e Nicola Danesi di Tony Clifton Circus, con gli abiti più dimessi possibili, sono intenti a discutere di un progetto che non ha ancora un forma. Dalla porta aperta delle scale antincendio, invece, si scorge il pianerottolo invaso da un tramonto pallido. C’è Lucia Calamaro che assume pose buffe, cercandone tra le molte improbabili del suo repertorio quella giusta per una foto-ritratto che le stanno realizzando. Mi vede, fa una smorfia. Anche la fotografa ride di gusto.
Sì, c’è un grande fermento a India, e per adesso – e forse per fortuna – è del tutto impossibile cercare di forzarlo in una sintesi, in una forma di senso compiuto.
[musica consigliata per la lettura: Sycamore Trees – Jimmy Scott]
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