Fabrizio Pallara sta incontrando e intervistando uno ad uno gli abitanti del Teatro India in un luogo intimo e appartato: il bagno.
Affacciandosi al bagno degli uomini nel Foyer del Teatro India, sulla porta dell’ultimo gabinetto si può leggere un cartello con scritto “non disturbare, registrazione in corso”. Attorno al cartello ci sono delle lucine di Natale, e se sono accese vuol dire che qualcosa sta effettivamente avvenendo dall’altra parte della porta. Ma cosa?
“Lo strano caso del bagno dei disabili” è diventato una specie di leit motif dell’abitazione di India da parte delle compagnie. Si tratta di un’idea di Fabrizio Pallara, che ha deciso di invitare tutta la gente che sta attraversando Perdutamente a passare alcuni minuti con lui nel bagno per rispondere a una domanda. La domanda (che non rivelo, perché c’è ancora chi deve rispondere) è connessa al tema della “perdita”, e la Fabrizio la pone creando un’ambiente piuttosto intimo e ravvicinato. Seduti uno accanto all’altro, con la luce spenta – c’è solo un led rosso a illuminare i nostri volti come in una camera oscura. Parte il registratore, la voce fluisce. Non c’è un modo stabilito per rispondere: Fabrizio spiega cosa accadrà, e chi è dentro comincia a parlare. Risposte personali, risposte metaforiche, risposte intime.
I risultati di questi incontri ravvicinati, o almeno una parte, diventeranno probabilmente un’istallazione durante l’apertura al pubblico di Perdutamente. Ma non è ancora chiaro in che modo, perché l’idea di dare un corpo spettacolare alla “strana faccenda che avviene nel bagno dei disabili” è una questione nata a posteriori. A priori, Fabrizio, cercava un dispositivo. Un dispositivo artistico che potesse permettergli di mettere in pratica alcune delle tante cose uscite in forma astratta durante le riunioni delle compagnie, nella fase di progettazione di Perdutamente. “Perdersi per l’India” era una di queste. L’altra era conoscere gli altri. Perché non tutti gli artisti coinvolti conoscevano gli altri all’inizio di questo percorso. Magari sarà pure capitato di condividere, coi propri nomi, i cartelloni di qualche festival; ma in molti casi – complice la velocità degli eventi e la concentrazione sul proprio lavoro – questo non è sufficiente a tradursi in conoscenza.
Stando ai racconti di tutti, nei primissimi giorni dell’apertura di India alle compagnie, Pallara lancia mail melancoliche in cui racconta lo stato un po’ chaplinesco e un po’ sconsolato in cui si trova, constatando che gli enormi padiglioni del teatro sono completamente deserti. C’è solo lui. Così invita gli altri a venire, a passare, a incontrarsi. Presumibilmente – ma non gliel’ho chiesto in modo esplicito – le conversazioni nel bagno sono frutto di quel momento lì. Fabrizio cerca un luogo piccolo, consono a un incontro ravvicinato, intimo, come è il suo teatro (spesso dedicato a pochi spettatori per volta). Insomma, un luogo che è il contrario di India, con la sua vastità e dispersione. E lì crea un dispositivo per poter finalmente conoscere i suoi colleghi. Per potersi perdere negli altri – per usare la retorica e i giochi di parole che hanno declinato in mille modi la commissione di questa Factory. Eh, sì, tocca dirlo che è proprio una retorica, un artificio lessicale, una dilatazione semantica. Perché questa storia del bagno ha tutto del trattenere (vabbè, ci siamo capiti), del raccogliersi, del trovare. E non c’è nulla di strano, perché è questa “dilatazione del senso” l’arte più specifica della scena, il fare artigianale di chi fa teatro. Una dilatazione che è un ossimoro luminoso, che quando funziona, anziché disperdere lo sguardo, coglie il nocciolo delle questioni.
[musica consigliata per la lettura: Road Trippin – Red Hot Chili Peppers]
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