Un dialogo improbabile al centro di un laboratorio, che è anche un incontro artistico. Che è poi una cifra – l'incontro – della Factory di India e del teatro contemporaneo, che gemma e si espande riconoscendo i suoi simili
Oggi, nella sala A del teatro, si poteva assistere a un’intervista piuttosto strana. Un uomo, seduto da solo in mezzo alla scena, circondato da una schiera di persone disposte ad arco lungo il proscenio. Lui è sofferente, con una gamba allungata perché non riesce a piegarla, e si offre con ritrosia alle domande. Al centro del proscenio c’è una donna che fa delle domande. L’uomo, che risponde con un accento ipoteticamente siciliano, potrebbe essere un capo mafia, potrebbe essere persino Bernardo Provenzano. Il dialogo si svolge all’incirca così:
– Buona sera.
– Buona sera.
– Posso chiamarla maestà?
– Mi chiami come vuole.
– Ci può dire come si chiama?
– Mattia.
– Quanti anni ha, Mattia?
– Eh… abbastanza.
– Ma è stanco? La vedo stanco.
– Gli anni stancano, la vita stanca, signora mia…
– Ah, è depresso. Un vecchio depresso.
– No non sono depresso. La verità non ti può deprimere… La verità salva.
– Com’è saggio.
– Bontà sua.
– Una perla di saggezza…
– Si fa quello che si può.
– Mi avevano detto che lei era un grande capo. Mica sembra un grande capo. Sembra un vecchio malato.
– E ma sa… anche i grandi capi mica sembrano sempre quelli che sono. E poi io non sono capo di niente. Io ho cercato solo di essere onesto con gli onesti e severo con chi non è onesto.
– Mi sembra di averla letta su un libro questa frase.
– Eh sui libri ci scrivono tante cose… ma mica sono tutte vere.
– Dio, com’è annoiato… com’è annoiato questo capo mafia. Siamo sicuri che non sia l’attore ad esserlo, piuttosto?
(Quest’ultima annotazione è accolta da una risata generale dei presenti).
No, non si tratta di un ardito esperimento meta-teatrale che cerca di mischiare Samuel Beckett e Leonardo Sciascia. È l’intervista al personaggio che Veronica Cruciani conduce (in questo caso con Fabrizio Parenti) per scavare nel personaggio, costruirlo, conoscerlo. Per eviscerare, lì nella sfera protetta della sala prove, tutti quegli aspetti e sfumature che presumibilmente in scena non vedremo mai, ma che l’attore deve avere ben presente per dare vita al personaggio – sfumature che più che restare nella mente, devono abitare il corpo dell’attore. Ma Veronica Cruciani, tra una pungolatura e l’altra dà indicazioni precise, sferza l’attore e anche il personaggio, cerca e scava alla presenza di tutti i componenti del suo laboratorio, attraverso il quale ha scelto di affrontare un testo di Michele Santeramo.
Santeramo è presente in sala. I folti capelli ricci sbucano da dietro le teste di alcuni attori. È in silenzio e osserva tutta la scena. Quella che ha scritto è una storia di mafia, una storia di sud, ma già dalle poche battute pronunciate si capisce che non c’è stereotipo nella sua scrittura, caratterizzata sempre da un accento realista vivido ma mai banale. Premio Riccione nel 2011, Santeramo è da tempo un drammaturgo apprezzato per le sue pièce portate in scena con la sua compagnia pugliese, Teatro Minimo, diretta da Michele Sinisi. Sarà a India fino alla fine di novembre per seguire il laboratorio di Veronica Cruciani, che il suo testo intende prima o poi portarlo in scena.
Santeramo è uno degli ospiti di questa Factory, uno dei tanti link possibili che l’ensamble delle 18 compagnie romane ha attivato. Gemmando come le piante, il teatro contemporaneo ha sviluppato nel tempo una fitta rete di collaborazioni, intrecci, incontri artistici e tentativi di confronto. Era naturale che questa terminazione nervosa, vasta e capillare, arrivasse anche a India, dove una parte di teatranti sta cercando – come gesto sia artistico che politico – di lavorare per collaborazioni, per soggettività multiple e ispirazioni ibride. Il ruolo di un centro culturale contemporaneo – se a Roma ne esistesse uno – sarebbe proprio questo: convivenza e conoscenza, che poi si traduce in modo spontaneo in incontri artistici, confronti e di lì in nuovi progetti. Questo succedeva in un certo modo al Rialto Santambrogio, quando era abitato contemporaneamente dalle prove e dai progetti degli artisti. Ma un grande centro attrezzato e funzionante 365 l’anno potrebbe essere un vero propulsore di idee, e anche una spinta inedita alla creazione.
Non è un caso, infatti, che la “rete neuronale” della scena contemporanea si espanda tra pari, ovvero tra persone con una stessa etica e qualità del lavoro pur nelle profonde (e a volte abissali) differenze linguistiche. Cosa potrebbe accadere se, oltre a riconoscersi, ci si potesse conoscere con calma e dare modo a questa conoscenza di sedimentare?
[musica consigliata per la lettura: Il padrino – Nino Rota]
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