Viaggio da Varanasi a Benares, che però sono i differenti nomi di uno stesso luogo. Le compagnie di perdutamente si confrontano con il limite, soglia di confine tra l'immaginazione e la realizzazione
Varanasi è la città sacra dell’Induismo. I fedeli devono andarci almeno una volta nella vita, per immergersi nelle sacre acque del Gange. Varanasi è anche la città dove gli induisti vanno a morire, perché secondo la loro religione è l’unico posto dove gli dei consentono agli uomini di sfuggire al Samsara. In questa città le pire funerarie ardono 24 ore su 24.
È evidente come al nome di Varanasi sia intrinsecamente legata all’idea di perdita e, ovviamente, l’India stessa. Per questo motivo il nome di Varanasi è stato scelto dalle compagnie di Perdutamente per un evento collettivo, fissato per il 15 dicembre. Un evento cerniera tra l’apertura e la chiusura di Perdutamente, in cui le compagnie si assumevano il compito di lavorare tutte assieme ad un evento e di farlo secondo un tempo non spettacolare, fatto di piccole performance tutte da scrivere, che avevano come obiettivo – più che un contenuto da veicolare – il tentativo di rendere il Teatro India abitabile, colmo di un’accoglienza fuori dal comune, e soprattutto dilatarne il tempo. Si vociferava, durante le riunioni dei giorni scorsi, di atmosfere “chill out”, di un foyer interamente ricoperto di materassi e cuscini, dell’invito a sdraiarsi e ad attendere lo scorrere del tempo senza l’ansia dello spettacolo da consumare. Si parlava di un particolare tipo di “dress code”, per quella serata che avrebbe dovuto estendersi dal tramonto all’alba, sintetizzato in un invito al pubblico: portatevi una coperta.
E invece Varanasi non si farà. Forse per eccesso di simbolismi, questo grande atto collettivo sulla perdita è diventato a sua volta perdita. Un lutto. Proprio quell’atto che doveva se non proprio riassumere il senso dell’atto politico di aprire il Teatro India fuori dalle sue coordinate spazio-temporali abituali, quanto meno esserne uno dei principali veicoli di riflessione, uno snodo artistico, comunitario e aperto (dunque, cittadino). Ma, a poche ore dalla stampa dei materiali promozionali della Factory, il castello incantato di Varanasi evapora. Si scontra con la sua realizzabilità tecnica. L’apertura notturna, i problemi di controllo dei flussi di pubblico, l’incognita di un dispositivo che si sta ancora ridisegnando mentre la sua realizzazione deve essere già certificabile e certificata, danno luogo a un potente “crash” tra la sfera dell’ideazione e quella della realtà.
Non che questo lutto fosse imprevisto o imprevedibile. Se c’è grande attesa e aspettativa nei confronti di Perdutamente, è proprio perché questa Factory sintetizza un confronto tra due logiche: quella tutta immaginativa e fin troppo aerea degli artisti, ispirati ai modelli dell’arte contemporanea e dei grandi musei del Nord Europa più che alla realtà produttiva dei circuiti teatrali italiani; e quella concreta degli stabili, fatta di verificabilità, certificazioni, scrupolo e anche burocrazia. Una frizione annunciata, che però è forse l’aspetto più luminoso di questo progetto: innescare l’incontro tra il teatro pubblico e la creatività contemporanea, da una parte; verificare il senso del limite nell’ambito produttivo da parte di artisti spesso esterni ai circuiti classici, dall’altra. Da questo punto di vista, Varanasi ha centrato uno degli scopi della Factory.
Ma resta un lutto. E, come tale, illeggibile dall’esterno, da chi verrà a guardare i risultati della Factory da semplice spettatore. Che fare, allora? Lasciare un buco in programmazione, a certificare quel lutto (ma chi sarebbe mai in grado di decifrarlo)? Immaginare una versione ridotta di Varanasi, ricondotta nelle maglie della realizzabilità? In entrambe le ipotesi aleggia consistente lo spettro che la “perdita” siano le compagnie stesse – come ha detto più volte Roberto Latini – il loro modo di pensare, di produrre, di tradurre in atto il pensiero.
Nasce così l’esigenza di rilanciare. Quest’esigenza si chiama Benares, il nome odierno dell’antica Varanasi, il suo doppio, la sua faccia diurna che completa quella notturna della città del tramonto, della morte, dell’antico. Benares è il progetto che traghetta, nel giorno, il gesto di accoglienza che era Varanasi, il gesto comunitario e agito collettivamente. Come lo farà? Impossibile saperlo. Benares è un’attestazione di volontà, seppure stampato su un programma di eventi. È oggetto di discussione e continua ridefinizione, proprio come le metropoli odierne. È oggetto di invenzione, tutt’ora, mentre questa pagina di diario viene scritta. Ma poco importa. Chi può imputare a un gesto anti-spettacolare, che si vuole soprattutto atto politico e d’accoglienza, di essere scarico di contenuti da veicolare? Che sia gesto. Se riesce ad esserlo è più che abbastanza.
[musica consigliata per la lettura: Benares Milonga – Matechai]
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