La luce che fende il buio è una metafora calzante per raccontare questi giorni al Teatro India. Dove si stringe la morsa del fare, vista la prossimità dell'apertura di dicembre, ma non si rinuncia all'anarchia della creazione.
Le riunioni sono estenuanti, alle volte, perché le compagnie di Perdutamente hanno necessità di analizzare le cose pubblicamente, elencare tutti i punti di vista, confrontarsi, darsi battaglia, cercare sintesi che poi si perdono, si ritrovano e ancora si perdono. È stato così anche nel pomeriggio di oggi – per altro, una domenica – quando si sono affrontati i possibili contenuti di Benares/Varanasi. Forma, contenuto, relazione col pubblico; questi i temi discussi, con tenacia e rigore, per lunghe ore. Con passione e concentrazione, come ha fatto Daria Deflorian. Ma alle volte può capitare che, nonostante la dedizione, il mondo esterno arrivi a guastare la concentrazione tenuta faticosamente per lunghe ore. Magari sotto forma di telefono che trilla, una, due, tre volte, al quale occorre dare nervosamente retta, sia pure soltanto con una porzione di cervello, per individuare quasi senza guardarlo il tasto “mute”, che escluda il suono fastidioso dello squillo. Ma quando l’interlocutore si fa insistente, e continua a chiamare e chiamare nonostante la mancata risposta, è istintivo guardare lo schermo per capire chi è che ha urgenza di scocciare così tanto. Nome sul display: Fabrizio Arcuri – seduto a due posti da Daria. Erano lui e Michele Di Stefano ad insistere sul cellulare di Daria. Quando l’assemblea se ne rende conto, scoppia in una risata generale. Un momento in cui si scioglie la tensione. Un piccolo atto di goliardia che irrompe, come un raggio di luce, fendendo le nubi dell’ideazione da cui cerca di prendere forma il nuovo gesto collettivo, Benares.
Con l’avvicinarsi dell’apertura del 3 dicembre, il Teatro India è esattamente questo: una tensione tra il buio e la luce, tra la creazione e la vita, tra il rigore del fare e l’anarchia del pensiero. Perché l’ansia del “realizzare” è sempre più palpabile, nonostante la dilatazione delle discussioni. E parlando di artigianato, di un fare pratico e materiale, non si può non citare l’antro di Vincenzo Schino, dove le immagini prendono forma come dentro alla bottega di un falegname. C’è una sorta di piscina, isolata col catrame. Un fondo scuro dove si agita l’acqua, e gli artisti di perdutamente sono invitati ad affacciarsi. Nel farlo, infilano la testa in un fascio di luce. La loro espressione, che affiora dal buio, si riflette nell’acqua scomposta, agitata di piccole onde voluttuose. Per poi sparire, tornando nel buio. Il tutto viene ripreso, come una sequenza di fantasmi che escono dalle quinte del teatro. Non sappiamo che cosa ne farà Opera, la formazione di Vincenzo Schino. Ma di certo, al suo apparire, questa sequenza di immagini sarà gravida della frequenza di India e degli artisti che la abitano, del suo incedere tra il rigore e l’anarchia. Tra la luce e il buio.
[musica consigliata per la lettura: Eclipse – Pink Floyd]
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