Andrea Baracco sta portando avanti un indagine su Cechov, che sonda l'animo umano attraverso una recitazione estroflessa e piena. Una recitazione che trova nella presenza e nella forma le sue coordinate più importanti
Stasera, nel foyer del Teatro India, c’era un numero costante di persone che aspettavano il loro turno per compiere il percorso immaginato da “Art You Lost?”. La voce si è ormai sparsa e non solo artisti e conoscenti, ma anche tanto pubblico reale ha preso parte alla costruzione che vedremo il 20 e 21 dicembre, a chiusura di Perdutamente, lasciando la loro traccia che si andrà a sommare a quella degli altri. C’è anche Gabriele Lavia, il direttore del Teatro di Roma appena rincasato dalla sua tournée, in attesa del suo turno.
Addentrandosi per le sale fino alla scala sul retro, si possono ascoltare le voci degli artisti intenti nei loro progetti. Su in alto, nella sala C, c’è Andrea Baracco che prova una scena di Cechov con il suo laboratorio. Da quanto racconta è la prima volta che si confronta con questo autore, in linea con la sua passione per i classici ma ricco di un mondo interiore molto complesso e stratificato, che è tutto da studiare e da scoprire. Perché Baracco – lo si intuisce immediatamente dal suo lavoro in prova – è un indagatore del testo. È un tenace evisceratore della zona che risiede fuori dalla pagina scritta del testo, alla ricerca di quella sostanza umana che mai potrà finire completamente in scena, ma che se non è costantemente presente all’attore rischia di rendere posticcio e fasullo ogni gesto. Il suo è un lavoro che, chi viene dall’area della ricerca, definirebbe senza esitazione “accademico”. Ma va fatta una distinzione. Un conto è applicare degli stilemi senza pensiero, anzi, tranquillizzati dalle forme conosciute e riconoscibili della recitazione. Un altro è sondare la possibilità di adoperare la griglia della recitazione per far uscire fuori una lettura – personale, attenta – di un testo. Può sembrare, a livelo formale, la stessa azione; ma a livelli sostanziali produce un effetto opposto: la prima è maniera, la seconda può rendere leggibile un testo di un’altra epoca e cultura (e, dunque, renderlo nostro contemporaneo. Andrea Baracco si situa, in questa sessione di prove, su questa seconda sponda.
Parlo di “accademia” e “ricerca” non perché abbia un senso oggi definire due campi in opposizione tra loro, ma perché esistono comunque dei lessici diversi, dei linguaggi a cui corrispondono circuiti e teatri di riferimento. Non è un caso che, salvo alcune eccezioni, quasi nessuno degli altri “perduti” abbia visto il lavoro di Baracco. Il suo lessico, che è anche la sua preziosa difformità, è l’apporto che consegna a questa Factory. È anche nelle prove lo si può vedere. Mentre nelle altre sale spesso il lavoro è condotto in modo riflessivo, quasi in silenzio, attenti alla vibrazione della discussione, alla speculazione, qui da Baracco il lavoro è invece piuttosto “energico” e “muscolare”. Quella dei suoi attori è una presenza piena, voluminosa, che chiede e anzi pretende attenzione. È la recitazione estroflessa e portata, che non ammette il vuoto. E il lavoro di Baracco, che sembra istintuale, è in realtà il gesto rapido e nervoso di chi ha in mente una forma molto precisa e lotta con la materia (con gli attori, con i corpi, l’impostazione delle voci) per farla fuoriuscire, nettandone i contorni. Tutto questo è talmente visibile che quando il regista blocca le scene per fornire le sue indicazioni, risulta lui stesso più energico ancora dei suoi attori. Si braccia, tuona, sprona e gentilmente persino impreca. In una parola: indirizza.
Roberto Castello, che è un coreografo e danzatore, in una conversazione di qualche tempo fa mi disse che esistono due modi per lavorare con un corpo: assecondandone la natura, per poi costruire attorno ad esso una forma spettacolare; oppure plasmarne la natura, affinché la forma spettacolare immaginata fuoriesca da esso. Baracco, la sua impostazione che alcuni “perduti” definiscono classica, è decisamente della seconda scuola. Ma non per questo rinuncia a fare questo passaggio “assieme” e non “nonostante” i suoi attori. La cosa mi è stata evidente quando, in un passaggio della prova, ha detto all’attore in scena che non centrava il registro richiesto: “Non ti sclerotizzare. Deve essere un meccanismo tuo, altrimenti dovrei dirti io quando portare la battuta… Se devi sbagliare, sbaglia! Però poi non ti portare dietro questo sbaglio come una reiterazione”.
L’ambizione di Baracco, dunque, è quella dello sculture che governa la forma ma che chiede alla materia di assecondare lo scalpello. Questa richiesta, che può sembrare una pura metafora rispetto alle dinamiche della fisica, è invece una disposizione concretissima se si considera che il nostro corpo – dunque anche quello dello scultore – agisce e reagisce per cinestesia. In teatro, poi, dove la relazione tra individuo è tutto, una simile attitudine non ha nemmeno bisogno di metaforizzare le leggi della fisica.
[musica consigliata per la lettura: Forma e sostanza – CSI]
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