Il foyer pieno di gente che chiacchiera, guarda, legge e conversa tra divani e tappeti è il primo segno dell'apertura di Perdutamente. E tra gli eventi della prima giornata c'è "Losers" dei Tony Clifton Circus
1. L’apertura
Intanto l’atmosfera. Il Teatro India non lo si era (quasi) mai visto così. Almeno non in inverno. Con un foyer allestito per “trattenere” – qualità del “teatro” secondo Claudio Morganti e il suo «Metodo Morg’hantieff», che si distingue da quella dello spettacolo, che sa solo “intrattenere”. Luci che disegnavano un ambiente più caldo di come siamo abituati a vedere il grande “hangar” che accoglie il pubblico prima dell’ingresso in sala; divani, tappeti, lampade che allestivano vari ambienti di relax e chiacchiera, dove la gente si poteva fermare, guardarsi, parlare. E poi istallazioni e performance un po’ ovunque, e la gente che vagava tra tutti questi elementi immersa in un’atmosfera di festa – per l’inaugurazione di Perdutamente, certo, ma anche perché il tempo dell’attesa è dilatato, non c’è solo lo spettacolo da vedere per poi fuggire verso casa, si può “abitare” questo spazio e finalmente guardarsi negli occhi, incontrarsi, scambiare opinioni o anche solo perdere del tempo (per restare sul tema della Factory).
Se uno degli obiettivi delle compagnie di Perdutamente era quello di creare un ambiente diverso, è sicuramente riuscito. Non si tratta di dettare un “archetipo” – ci sono mille varianti che potrebbero essere adottate, e non è detto che la contemporaneità di tanti eventi debba necessariamente coincidere con l’ordinario di un teatro – quanto piuttosto di immaginare una modalità. L’esordio di Perdutamente è stato soprattutto questo: si respirava familiarità, vicinanza con il teatro e i suoi protagonisti, anziché la solita distanza, e lo spazio che ospitava non era solo un “tempio dell’arte” ma anche una “casa degli artisti”, da abitare e vivere.
2. Losers
L’evento di punta – anche a causa della sua irripetibilità – è stato «Losers» dei Tony Clifton Cirus. Che si sono presentati con la loro tenuta metà pop e metà man-in-black, il loro fare strafottente e corrosivo e un enorme Babbo Natale gonfiabile che avevamo avuto modo di apprezzare in un loro precedente lavoro. Sgonfiato il pallone gonfiato – se si passa il gioco – appare il vero fulcro della serata: un ring per la boxe. Dall’alto del ring, un istrionico ed energico presentatore (Fabrizio Parenti) invita il pubblico a disporsi sopra il palcoscenico, a cerchio attorno al ring. Perché quello a cui assisteremo è un vero incontro di boxe. Iacopo e Nicola hanno intrapreso da tempo un percorso di prepugilistica e di allenamento vero e proprio per arrivare fino a questa serata, in cui si picchiano per davvero (pur con tutte le adeguate protezioni). Di contorno, gli altri artisti di perdutamente mettono in scena il resto della macchina sportiva: da un’improbabile signorina-cartellone che scandisce i round (una buffa e bella Alice Palazzi) agli allenatori, le groupies, i giudici e altro ancora.
Perché mettere su tutto questa macchina per poi proporre qualcosa di “vero”, e per giunta di fisico e potenzialmente doloroso, come un incontro di boxe? Il ragionamento che fanno i Tony Clifton è quello di tante derive performative prima di loro: il teatro è morto, o almeno moribondo, e ha bisogno di una scossa adrenalinica che lo porti verso i “rischiosi” territori del vero, dove “ci si mette in gioco” (per usare una terminologia cara alla performing art). E lo sport per di più – la boxe in particolare – ha tutte le caratteristiche del racconto epico (la sfida, l’antagonista, il dolore, il rischio fisico, la vittoria o la sconfitta), tutti quei raccordi che rendono una storia appassionante e che al teatro – pare – non riescono più.
I Tony Clifton Circus, però, non si limitano a replicare il “due più due” dell’arte performativa, che pretende che il vero della vita precipiti sul palcoscenico. Anzitutto perché lo fanno nella loro maniera, clownesca e cialtrona, che lancia dubbi sulla stessa logica che dovrebbe reggere l’operazione (il vero del carne-e-sangue è, o sarebbe, migliore delle metafore finzionali del teatro). E, secondo poi, perché finalmente si pone il problema del dopo. Ovvero: d’accordo, portiamo il sangue sulla scena, portiamo il vero dolore, innerviamo di verità il palco per dare uno shock all’addormentato e autoreferenziale pubblico del teatro. E dopo? Come se ne esce? Come si esce dalla retorica dell’estremo? Come si fa in modo che quello shock, che una volta verificatosi non sa parlare di altro che di se stesso, si trasformi in un “discorso”? I Tony lo fanno attraverso la parola. Di più: attraverso la riflessione critica, affidata al pensiero raffinato di Attilio Scarpellini la cui voce registrata sovrasta le ultime battute dell’incontro, ragionando sul falso e sul vero a teatro. Una recensione che è stata fatta prima ancora di vedere l’incontro – perché nei territori dell’arte che sciocca è sempre il dispositivo a parlare, mai l’esecuzione (e dunque a ben vedere non c’è “arte” nel senso di “artigianato”). E che, attraverso la parola traghetta altrove i duellanti e la folla in delirio – perché sì, basta trascinare la folla anche colta del Teatro India davanti al fateci-vedere-il-sangue e quella, per di più protetta dal fatto di trovarsi dentro una performance, un’azione colta per definizione, non esiterà a chiedere davvero il sangue. Dove li traghetta? Non si sa, perché la recensione/spettacolo finisce con una domanda (“e adesso come ne usciamo?”); ma di certo si può dire che si tratta ancora dei territori del ragionamento e – tutto sommato – ancora del teatro.
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