Le apparizioni suggestive di Eco, che affiorano dal buio, fanno da contrappunto alla scena tutta squadernata e visibile di Clima
3. Eco
Anche un fantasma o un ricordo possono essere considerati un’eco dell’esistenza, una forma visibile ma immateriale che può materializzarsi e svanire senza una ragione apparente, o seguendo le vie incerte e buie dell’inconscio. Non è detto che Vincenzo Schino abbia fatto questo stesso ragionamento nel costruire le due istallazioni visive e performative che compongono «Eco» – quello che è certo, però, è la maestria con cui sa dosare l’intensità delle immagini che crea, dando loro una sorta di vita, un’onda che le attraversa, come un riverbero che è in grado di entrare in risonanza col riverbero interiore di chi guarda. Questo accade, visibilmente, agli spettatori che osservano in silenzio la “pozza” nera dove appaiono come fantasmi i volti di tanti “perduti” (non le anime dantesche, bensì gli artisti della Factory di India). I loro volti, proiettati a pelo d’acqua, fuoriescono dal buio come immergendosi nella luce, e il riflesso dell’acqua – dei volti, ma anche delle onde che li fanno sfarfallare – si disegna sul soffitto, tra le travi di legno della sala teatrale, immersa nell’oscurità. L’altra polarità di «Eco» è composta da un ottagono di vecchie porte, sopra il quale fluttua una marionetta di filo di ferro. È una figura stilizzata (che ricorda una versione scheletrica e più elementare de “La Linea” di Osvaldo Cavandoli), distesa come su un letto invisibile, da dove si lancia in una danza ipnotica e lenta. Quando la luce riempie l’interno delle porte, dagli spioncini possiamo osservare Marta Bichisao che – distesa – muove i fili della sua marionetta, imprimendo al corpo di quella i suoi gesti. Anche qui siamo di fronte a un’apparizione, che stavolta però ha il sapore del disvelamento.
Le due immagini non hanno necessariamente una connessione, se non nella linea di lavoro di Opera. Certo, però, cercano entrambe questo “riverbero”, questa eco da innescare con un’apparizione visiva e poi da lasciar vibrare, a lungo, nella mente dello spettatore.
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4. Clima
“Se c’è qualcosa da guardare non è il corpo stesso, ma lo spazio che c’è attorno al corpo (e questa è anche la nostra precisa idea della danza)”. Con queste parole Michele Di Stefano introduce la performance di cinque minuti che compone «Clima», almeno nella sua parte pseudo-spettacolare che ha luogo nella sala B di India. Perché quello che vediamo ha un antefatto nel foyer, dove i danzatori della compagnia MK istruiscono le persone che si iscrivono a partecipare alla perfomance, che viene assemblata là per là. Chi vuole, infatti, può iscriversi all’improbabile desk di un’agenzia di viaggio impiantata nel bancone-biglietteria del foyer, ricevere le istruzioni sulla coreografia da seguire, e poi essere condotto in sala da una tour operator, che tiene in alto e ben in vista un ombrello – come in una visita guidata – precedendo la comitiva di performer improvvisati. E poi eccola là, la sala nuda del Teatro India, l’altrove esotico dove il gruppo comincia ad aggirarsi come tra i monumenti di un paese straniero. La performance ha inizio, ognuno esegue ciò che sa senza sapere cosa gli succede accanto, ma con la percezione che altri corpi “sfrecceranno nello spazio accanto a loro” – come suggerisce Di Stefano.
La riflessione sul turismo, l’esotico e lo straniamento che deriva da entrambi è alla base di un potente dispositivo creativo messo in campo dagli MK già da un po’. Che sta allungando la sua gittata lungo l’arco di diversi lavori della compagnia. Non tutto è sempre immediatamente leggibile (non perché incomprensibile, ma perché parla un linguaggio complesso, stratificato), eppure il dispositivo tocca una corda profonda del nostro essere nel mondo: il legame con l’altrove. Un legame che scandisce la nostra vita in chiave oppositiva, colonizzando il nostro immaginario e spingendoci a definire noi stessi in rapporto a ciò che non siamo, dove non siamo, il tempo che non viviamo. Ma che vorremmo essere o vivere. Una dinamica che intercorre tra il tempo del lavoro e quello della vacanza, ad esempio, ma in chiave più generale anche tra il presente e il futuro – o, per estensione, tra la performance che ha luogo sul palco e l’osservazione che ha luogo in platea.
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