Le prime cinque puntate di Nollywood, il progetto dell'Accademia degli Artefatti in cui invitano i vari artisti di perdutamente a "colonizzare" il loro palco, restituendo in cambio un ritratto teatrale, giocato sulle parole chiave dette dagli stessi protagonisti. Che, però, sono del tutto ignari di cosa accadrà sul palco.
8. Nollywood – io non sono così (in privato)
L’arte di “ritrattare” non è necessariamente quella di cambiare versione dei fatti. Ma può avere anche che fare con quella di tracciare le identità – identità plurali, magari, stratificate come lo sono tutte, ma forse ancor più complesse se, come in questo caso, si tratta delle identità degli artisti. Una distorsione del termine “ritrarre”. Così sembra averla intesa l’Accademia degli Artefatti con il progetto Nollywood, che tutti i giorni di Perdutamente propone una perfomance di durata variabile che “ritratta” di volta in volta un artista della Factory.
Fabrizio Arcuri e Matteo Angius hanno fatto una scelta complessa nel declinare la loro presenza al Teatro India. Coerentemente con l’idea di collaborazione con le altre compagnie il più allargata possibile, hanno proposto ai loro colleghi di essere gli protagonisti delle loro performance, intervistandoli e chiedendo loro di regalargli una parola importante per loro, una canzone e un’urgenza. Tutti materiali attorno ai quali vengono costruiti i 16 appuntamenti di Nollywood (con la geniale complicità di Magdalena Barile, che stende le drammaturgie). Gli ignari protagonisti, catapultati nel mezzo di una scena che non conoscono, non sanno nulla di quello che accadrà. Sembrerebbe un meccanismo autoreferenziale – le compagnie di Perdutamente che parlano della compagnie di Perdutamente – se non fosse che Arcuri, nel trattare i materiali delle interviste, li ha inseriti in un dispositivo che ne fa oggetti a sé, leggibili anche da chi non conosce da vicini le compagnie di India.
Il tema che inquadra i vari elementi è la “colonizzazione” dell’immaginario. Una colonizzazione che i vari ospiti sono invitati a interpretare, piantando simbolicamente una bandiera con su scritto il loro nome su un mucchio di terra che sta di lato nel proscenio. Per poi diventare loro stessi il contesto sui cui questa colonizzazione si compie.
Prima della vera partenza, però, gli Artefatti hanno voluto fare un autoritratto (o autoritrattazione). La prima “striscia” – perché questo sembra, a volte, l’appuntamento quotidiano con Nollywood: una striscia come quella dei vignettisti sui giornali – è dedicata agli stessi Fabrizio e Matteo. Che entrano in scena a bordo di una Cinquecento da fono della sala, e nel buio, illuminati solo da due led, si lasciano andare a un geniale dialogo di brechtiana memoria, sul senso della resa e sulla possibilità di cambiare le cose senza violenza. “Dobbiamo fingere di non esserci arresi”, dicono chiudendo questa prima parte dello spettacolo (che segna per altro la “prima volta sulla scena” di Fabrizio Arcuri, solitamente autoesiliato in regia). Per poi lanciarsi nel proprio – davvero inaspettato – autoritratto: Fabrizio Arcuri entra in scena vestito da clow bianco, accompagnato da Matteo Angius anch’esso in versione clown. I due si lanciano in una serie di gag classiche, denunciando la propria condizione di “pagliacci-presentatori”. Perché così appariranno nelle successive “puntate” di Nollywood: naso rosso o nero, microfono e felpa da riot.
Ed il tema della rivolta, del confine traballante tra l’uso della violenza e l’impotenza dei meccanismi democratici, è tornato più volte all’interno dei ritratti. Così come quello dell’arte che muta forma e sostanza fino a smarrire se stessa. “Dicendo post- questo e post- quello, per fare finta che post- tutto qualcosa ancora vive, dobbiamo fingere di non esserci arresi”, dicevano Arcuri e Angius nella prima puntata. E questo ragionamento si riverbera anche negli altri spettacoli, nelle parole consegnate dagli artisti agli Artefatti; si trasforma nell’ossatura di una drammaturgia che si compone per frammenti.
E così assistiamo a una carrellata di storie che, tutte diverse, collassano però nello stesso dispositivo, diventando idealmente un unico spettacolo potenzialmente infinito, che procede a spirale. In “Western desappearance” (puntata 2, dedicata a MK) assistiamo a una finta rissa che parte dal pubblico, attraversando improvvisamente la scena come le sue performance “turistiche”, per poi ritrovare lo stesso Di Stefano che si lancia nell’interpretazione live della sua canzone.
Ne “Le regole del gioco” (puntata 3, dedicata a Lisa Ferlazzo Natoli), assistiamo alla delineazione caotica di un territorio, una mappa creata con lo scotch-carta tutto attorno a Lisa, la cui ossessione è capire il territorio dove si muove e le sue regole; regole che saranno sovvertite da un evento criminoso: il rapimento del suo cane Molly (scomparso davvero pohe ore prima), la richiesta di riscatto dei rapitori e il lieto fine, in cui vediamo Molly schizzare dal fondo del palco fino a raggiungere la sua padrona – recuperando, incredibilmente, l’emozione del “drammatico” a una drammaturgia frammentaria e “post-drammatica”, anche se non come intento primario, ma come accidente imprevisto del dispositivo.
In “Mostrami (chi mostra chi)” (puntata 4, dedicata ai Santasangre) Roberta Zanardo e Luca Brinchi si mettono in mostra sul divano al centro della scena, diventando un’opera d’arte osservata e commentata da un’improbabile gruppo di visitatori che entrando da una porta come entrando nella stanza di un museo, per poi proseguire dopo nel loro tour immaginario. Il commento vede lo scontro (mutuato da Martin Crimp) tra i sostenitori dell’arte che ha perso i suoi contorni (“un po’ ironica un po’ tragica, un po’ buia un po’ luminosa” la definiscono) e quelli che invece la criticano proprio per questo scollamento con l’artigianato del fare in favore della produzione di idee che possono essere tutto e il contrario di tutto, e quindi stimolare un dibattito potenzialmente infinito ma anche potenzialmente inutile. Una condizione da cui non sfugge nemmeno il pubblico, chi osserva, perché l’improbabile comitiva si rivolge anche verso di loro (di noi), guardando e commentando la platea come fosse un quadro del loro museo immaginario.
“Being Federica Santoro” (puntata 5, dedicata a Federica Santoro) denuncia da subito il suo debito immaginativo al film “Essere John Malkovic”. E infatti tutti i performer in scena indossando una maschera con la faccia di Federica, e si rivolgono l’un l’altro chiamandosi Federica Santoro (quasi fosse un’odierna operazione Luther Blissett). Questo perché l’esigenza dell’anonimato per operare nel mondo dell’arte senza i ricatti del nome, del brand, della fama, affinché solo l’opera sia valutata da chi la vede e non il contesto, è una delle urgenze di Federica. A cui i suoi cloni dedicato un silenzio (della fama) che diventa musica: un quartetto d’archi che allestisce sul palco un affascinante concerto in controluce – e la musica è uno dei campi in cui Federica si sta muovendo, in collaborazione con Luca Tilli, all’interno di Perdutamente.
Insomma: immagini, parole, riflessioni inquiete e goliardiche si affastellano nel dispositivo di Nollywood, che per le sue prime cinque puntate ha allestito – malgrado i suoi protagonisti involontari, e forse in parte malgrado anche quelli consapevoli – una drammaturgia sull’impotenza dell’arte e sull’esigenza di un gesto che, sia pure artistico, sappia incidere davvero sulla realtà.
Staremo a vedere cosa accade nelle prossime puntate.
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