Le immagini di Rockwell kent diventano la "tela" su cui il Teatro delle Apparizioni dipana il suo racconto di Moby Dick per immagini e voce. Roberto Latini, intanto, invita i protagonisti di Perdutamente a partecipare al suo programma di battaglie per la resistenza teatrale.
9. Moby Dick (Teatro delle Apparizioni)
Una narrazione che si espande come un flusso d’acqua, come una corrente marina che prende forma grazie al racconto, alla recitazione, ma anche grazie alle immagini proiettate a pioggia sul palco, attorno alle quali si raduna il pubblico. Un pubblico contenuto, di 80/100 persone, che si accalca attorno al rettangolo della visione proiettata a terra, che visualizza di volta in volta il mare in tempesta, il profilo del Pequod (il vascello comandato dal capitano Achab), la sagoma inquietante della balena bianca. E da dentro l’immagine, a volte di lato a raccontare, a volte “fuso” con essa, Dario Garofalo dà voce a Ismaele, l’io narrante del classico di Herman Melville. Ma non c’è solo la cornice suggestiva di una dispositivo visivo che sembra quasi inglobare il pubblico, che guarda in basso come dentro un pozzo in cui prende corpo la storia; c’è anche la scelta, da parte di Fabrizio Pallara che ha ideato lo spettacolo, di lavorare attorno a un segno grafico non solo riconoscibile, ma gravido di una sua storia. Quella di Rockwell Kent, primo illustratore di «Moby Dick» e viaggiatore a sua volta, che diede alle stampe nel 1930 una storica edizione illustrata in bianco e nero. Un lavoro che produsse alla fine degli anni Venti dopo un soggiorno di due anni tra i giacchi, resosi irreperibile a tutti, persino al suo editore; soggiorno dal quale tornò con 295 tavole illustrate in bianco e nero, dal forte gusto simbolista. È quindi un doppio viaggio quello che propone il Teatro delle Apparizioni con «Moby Dick» – presentato a Perdutamente in matinée e nei pomeriggi, per aprirsi a un pubblico scolare. È il viaggio nell’avventura di Melville e quello nell’universo grafico di Kent. Il tutto attraverso un dispositivo semplicissimo – racconto e immagini – ma assemblato con una raffinatezza e una originalità tali da infondere a questo spettacolo una forza espressiva rara e avvolgente. Un carattere tutto suo, in linea con la ricerca delle Apparizioni, tutta orientata all’immersione – non solo mentale, ma sensoriale e fisica – dello spettatore nella storia.
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10. Seppure voleste colpire (Fortebraccio Teatro)
Roberto Latini propone all’interno di Perdutamente il suo “sit-in artistico, e quindi politico e culturale” su cui sta lavorando già da alcuni mesi, invitando artisti teatrali e non solo a portare in scena frammenti “nudi” del proprio lavoro. «Seppure voleste colpire» è stato definito dal suo ideatore una “battaglia per la resistenza teatrale”; una battaglia che però è condotta con le armi del teatro, che toccano ma non offendono, e con le armature di pezza che tutti gli ospiti di Fortebraccio Teatro indossano per entrare in scena. Non a caso il titolo scelto per la battaglia è una frase tratta dalla «Tempesta» di Shakespeare: “Seppure voleste colpire, le vostre spade sono oramai troppo pesanti per le vostre forze – dice Ariel – Non potete sollevarle!”.
La “chiamata alle armi” stavolta ha coinvolto gli altri artisti “perduti” per il Teatro India. Vincenzo Schino e Marta Bichisao hanno proposto una lettura e la visione integrale di un cortometraggio di Walt Disney, con un Topolino direttore d’orchestra. Veronica Cruciani ci ha resi partecipi di alcune pagine del libro che ha appena cominciato a leggere, il diario di John Cheever appena uscito in libreria. E ancora letteratura con la rivisitazione del romanzo «Il soccombente» di Thomas Berhard, che è alla base dello spettacolo «Fragile show» di Biancofango: Andrea Trapani ce ne ha proposto un pezzo in cui il protagonista dà sfoggio del suo virtuosismo e della sua conoscenza di Glenn Gould, mettendo in ridicolo critici, professori e concertisti radunati in una festa. Mentre MK ha proposto un breve e intenso assolo di danza.
Particolarmente interessante la performance di Elvira Frosini, che ha dato vita a una Marylin zombie che, coprendo il microfono con una folta cascata di capelli biondo, si lanciava in un monologo dove il cibo si trasformava in una metafora in grado di inglobare sentimenti, consumo, senso di morte; un monologo sussurrato al microfono tra rumori di masticazioni e deglutizioni. Altro momento clou, più slabbrato ma di grande coinvolgimento, è stato il monologo-nonmonologo di Lucia Calamaro, che ha letto un testo elaborato su Perdutamente, sugli incontri infiniti di preparazione e sulla partecipazione al progetto, inframezzato da un testo molto più vecchio: pensieri, divagazioni, borbotti interiori che si fanno udibili, insomma tutto il teatro di Lucia Calamaro anche se in forma breve ed embrionale.
A chiudere ci ha pensato il padrone di casa, lanciatosi in un vibrante monologo al microfono, dove a partire dalle parole di Shakespeare fuoriusciva come un’onda tutto il virtuosismo profondamente “drammatico” ma del tutto fuori dalle retoriche del dramma che caratterizza gli affondi recitativi di Roberto Latini, struggenti e carichi di forza.
Cosa resta di questa carrellata di lavoro? Il gesto, profondamente anti-spettacolare, di riunire creatività diverse su un palco, quasi come attorno a una tavola rotonda, dilatando il tempo dello spettacolo per non lasciarsi fagocitare, almeno per una volta, dai meccanismi dell’evento, dalle dinamiche del prodotto chiuso, finito, impacchettato e pronto ad essere venduto e consumato. Una dilatazione del tempo che è anche, idealmente, dilatazione dello spazio: una cascata di fili argentati, che formano il sipario, si trovano a fondo scena e non sul proscenio: come a voler significare che tutti siamo “al di qua” della scena, dentro il palco. Tutti, insomma, siamo coinvolti.
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