Qual è oggi il mestiere dell'attore? A ogni diverso tipo di teatro corrisponde un diverso tipo di recitazione? E il confine tra il performer e l'attore di mestiere esiste ancora? Ha senso che esista? O siamo tutti sprofondati in un contesto di estetiche esplose dove non è più possibile rintracciare, accanto al canone espressivo, anche una sia pur minima idea di professionalità? Queste e altre domande hanno animato il primo incontro di "Actor Stadio", sul ruolo dell'attore odierno
11. Actor Stadio
Al tavolo dell’attore, momento di discussione costruito durante la fase precedente all’apertura di Perdutamente, hanno partecipato molte delle compagnie della Factory: da Francesca e Andrea dei Biancofango a Diana dei Santasangre, da Andrea Baracco a Manuela Cherubini e Luisa Merloni di Psicopompo teatro, e altri ancora. La restituzione di questa elaborazione sul ruolo dell’attore e sui confini sempre più incerti della sua arte ha preso il titolo di «Actor Stadio»: un momento pubblico di ragionamento sull’attore. Una sorta di speaker’s corner collettivo dove dubbi, intuizioni e personalissimi punti di orientamento si sono affastellati, assumendo la forma più classica dell’elaborazione fatta da più persone con diversi punti di vista: la domanda.
Gli artisti di Perdutamente hanno presentato una serie di interrogativi attorno ai quali è gemmata la discussione di domenica. Cos’è oggi un attore? Siamo davvero tutti attori? L’interrogativo lo ha posto Francesca Macrì, sottolineando come il progressivo allargamento dei linguaggi e il numero elevato di persone che fanno – o dicono di fare – questo mestiere, abbia portato a una grande confusione su chi è (cos’è, verrebbe da dire) davvero un attore. Uno che semplicemente sta sul palco? Una presenza? O uno che possiede un “mestiere”, dunque un’arte? Alla prima riflessione un po’ scontata in difesa della professionalità (che è di “alcuni” e non di “tutti”) ha fatto seguito un ragionamento più interessante, che inserisce l’arte dell’attore nella metamorfosi che ha vissuto il teatro negli ultimi anni. La sintetizza bene Federica Santoro: oggi fare l’attore significa anche vedersela con la possibilità di fare “qualunque” tipo di teatro, dunque anche uno che non richiede un virtuosismo recitativo. L’idea stessa di attore si è spostata, è slittata verso qualcos’altro. Cosa? La performance. È la frizione storica della ricerca con la performig art ad aver squadernato l’idea di attore, ad averne ridisegnato la funzione e – di conseguenza – le competenze. Ecco allora prendere finalmente corpo la domanda più nodale: che distanza c’è tra “performer” e “attore”?
Per Flora Blasi la distanza c’è. Non sa spiegarcela in termini concettuali, ma la avverte praticamente nel suo lavoro quotidiano. Ovviamente un attore può essere anche un performer, e un performer può fare anche l’attore, ma le due funzioni appartengono ad ambiti diversi. Attilio Scarpellini ribadisce che comunque l’attore è una “crucialità” del teatro e lo è soprattutto oggi – il riferimento è al convegno condotto da Franco Cordelli alcuni giorni prima, sul tema della “crisi del teatro di regia”. Oggi molti registi riconoscono il fatto che l’attore non è un mero esecutore, mentre anni fa non era così. Marco Martinelli, ad esempio, nel suo contributo al convegno di Cordelli parlava di rapporto paritario. Dunque, l’attore è un attore pensante, creativo, non può essere eterodiretto. Scarpellini pure parla di ambiti, nella distinzione tra performer e attore, ma si tratta di contesti di settore più che di specificità professionali: il performer appartiene all’ambito della crisi dell’arte visiva che ha prodotto la performing arte; l’attore appartiene all’ambito dell’arte della recitazione e della rappresentazione. Ciò detto è evidente a tutti che, almeno in teatro, si trovano entrambi i tipi di professionalità.
Daria Deflorian ha ricordato la distinzione che faceva un maestro della danza Butoh come Masaki Iwana durante le sue lezioni romane negli anni Novanta. “Da quando sono in Occidente ho visto molti attori-carne: persone che portano violentemente se stesse sulla scena. Non ho visto invece l’attore-paesaggio”. Alla domanda su come fare a diventare un attore-paesaggio, Iwana rispondeva con frasi del tipo: “Osserva come si comporta il fumo di una sigaretta”. Con una profonda intuizione, Daria Deflorian ha tracciato un passaggio storico importante almeno nel contesto romano: l’influenza che lo studio e la sperimentazione degli anni Novanta a avuto sull’odierna generazione di attori. È indubbiamente vero che alcuni grandi passaggi di artisti – come quello dei maestri del Butoh negli anni Novanta a Roma – ha influenzato chi si stava formando in quegli anni, senza barriere di competenza tra la danza e il teatro (Alessandra Cristiani, ad esempio, era partita dal secondo per poi approdare alla coreografia proprio grazie all’incontro col Butoh). Ma qual è influenza dell’idea di attore-paesaggio sulla recitazione odierna: la relazione col pubblico. Lo spiega meglio Antonio Tagliarini: se tutto accade esclusivamente sul palco, come succede con l’attore-carne, allora l’oggetto scenico può essere pure bellissimo ma io-spettatore non sono che un voyeur. Se invece avviene qualcosa anche nella mentre dello spettatore, nel senso che lo spettacolo prende corpo grazie alla relazione con lui, allora abbiamo un attore-paesaggio, e un oggetto scenico che, all’oggi, è più interessante. È chiaro che, all’interno dell’idea espressa da Deflorian e Tagliarini non c’è solo un’ipotesi più funzionale dello “stare in scena”, ma un’idea della relazione col pubblico che è già drammaturgia, che è già dinamica di racconto.
All’opposto, ma non in opposizione, si situa invece Andrea Trapani che sente l’urgenza di vedere “un corpo” in scena, di avvertire la presenza dell’attore che sappia far vibrare la carne (e la voce, la presenza, lo sguardo) con maestria. Mentre Luca Venitucci torna a insistere sulla distinzione tra “performance” e “teatro”, centrando uno dei nodi più interessanti. Luca, pur lavorando spesso col teatro, è un musicista. Nel teatro, come anche nella danza, nella musica e in molte altre discipline, negli anni passati si è sentita l’urgenza di andare “fuori del proprio specifico”, valicare i confini della propria disciplina. Per questo, molte volte, negli spettacoli di danza, musica, teatro, si vedono cose che non hanno nulla a che fare con la tecnica né con la “grammatica” di quella specifica arte. Il centro creativo si sposta altrove: nel dispositivo. Questo è un procedimento “per sottrazione” ereditato dall’arte visiva, dove l’aspetto della tecnica è stato completamente bypassato con il passaggio all’arte contemporanea (basti pensare alla grande differenza tra quando l’arte visiva ancora collideva con la pittura e il panorama odierno). Il rischio è sempre quello sintetizzato ironicamente da Flora Blasi (“questo non è recitare, potrebbe farlo anche mia nonna…”). Il punto, però, sta proprio lì: lo specifico della performance, secondo Venitucci, sta ancora nella “sottrazione”. Forse allora oggi uno scarto si potrebbe compierlo interrogandosi su come reimmettere la tecnica e la professionalità all’interno di questo panorama esploso. O, per dirla con altre parole, di come reinventare una lingua con le macerie e i frammenti estetici del post-moderno. Secondo Roberta Nicolai, che da regista vede nell’attore lo scarto incontrollabile tra “la potenza” e “l’atto” della creazione. Roberta afferma di non avere soluzioni chiari, ma di muoversi per tentativi. Ma si dice certa, tuttavia, che oggi l’attore-carne viaggia verso il reality show, il linguaggio mainstream, e che quindi il teatro deve andare altrove. La scelta delle tecniche da seguire, però, non è eludibile: perché, a seconda di che tecnica di recitazione scegliamo di seguire, scaturisce un differente tipo di teatro.
Nonostante il grande richiamo alla professionalità, Attilio Scarpellini ribadisce che secondo lui il mestiere dell’attore non è mai davvero una “competenza”. L’attore che impara dei passi di danza per uno spettacolo può compierli divinamente, ma non per questo diventa davvero un ballerino. L’arte dell’attore è sempre sulla soglia, in bilico tra competenza e incompetenza di ciò che deve realizzare sulla scena. E questo è connesso a un’idea, profondamente legata al teatro, di “informalità”. Nell’arte visiva – come pure nel linguaggio comune – si definisce “teatrale” qualcosa di fortemente retorico, enfatico, posticcio, che sfiora nell’eccesso di drammatizzazione (mentre l’idea di “realtà” acquisisce una connotazione positiva). Eppure nemmeno l’arte visiva è riuscita a mantenere il formalismo più puro, l’oggetto d’arte irrelato dalla dimensione (più “bassa”, più “sporca”) dell’umano. E infatti dalla sua crisi è scaturita poi la performing art. Il teatro rappresenta tutto ciò che “cade nell’umano” rispetto al processo di formalizzazione dell’arte. Dunque è vero che la ricerca del “vero” in scena ha portato a uno scompaginamento dell’arte dell’attore. Ma è anche vero che questa stessa arte, se compie coscientemente e con sapienza la sua “caduta nell’umano”, riesce a coinvolgere e a diventare uno dei pochi discorsi possibili che scartano dall’impasse dell’arte in epoca post-moderna. Non a caso, secondo Scarpellini, oggi, il teatro è il più grande tribunale del contemporaneo.
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