Un'improvvisata premiazione di Federica Santoro, vincitrice del premio ubu come attrice non-protagonista; l'istallazione dei Bagni Rossi del teatro delle apparizioni; il percorso sonoro ideato da Diana Arbib, Level, che plasma atmosfere inquietanti lungo i corridoi nascosti di India; tutto questo e altro ancora ha animato l'ottava giornata di Perdutamente.
Un fuori-programma molto divertente ha caratterizzato l’esordio dell’ottava giornata di Perdutamente. Giusto alla fine del ritratto di Veronica Cruciani che l’Accademia degli Artefatti ha allestito per il progetto Nollywood. Prima che la sala si svuotasse, una coda inaspettata ha collegato idealmente Roma e il Teatro India con Milano e il Piccolo Teatro – dove in quello stesso momento venivano presentati e assegnati i Premi Ubu. Si illuminano gli schermi (a Roma) e compare la scritta: Federica Santoro, Premio Ubu 2012 come miglio attrice non-protagonista. Fabrizio Arcuri, ancora rigorosamente in tenuta da riot-clown, felpa cappuccio e naso tondo, fa salire sul palco Federica per premiarla simbolicamente. Già, perché poco dopo va in scena «Divertimento», uno spettacolo per il quale Sebi Tramontana si è spostato dalla Sicilia e che era impossibile far slittare nel calendario. Così Federica Santoro è rimasta a Roma nel “presidio” di Perdutamente, al seguito del suo lavoro e degli artisti coinvolti, rinunciando alla “gloria” della passerella Milanese. E Roma, a suo modo, l’ha compensata festeggiandola in modo alternativo. Comunque a Milano l’avranno sicuramente pensata intensamente, visto che diversi artisti romani, per giunta coinvolti a Perdutamente, erano lì per ritirare premi omologhi: Lucia Calamaro (miglior novità drammaturgica), Daria Deflorian, (miglior attrice), Daniele Timpano (premio rete critica). Un bel segnale per la città di Roma, ma anche per la scena indipendente che pian piano conquista una visibilità meritata.
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12. Bagni Rossi
Una delle istallazioni artistiche che hanno caratterizzato Perdutamente fin dal primo giorno è «Bagni Rossi», l’istallazione di Fabrizio Pallara nei gabinetti del Teatro India. Come forma di incontro artistico, ma anche umano, e di riflessione attorno al tema della perdita – la commissione che Gabriele Lavia ha lanciato agli artisti invitandoli a partecipare alla Factory – il regista del Teatro delle Apparizioni ha inventato un dispositivo molto semplice ma estremamente suggestivo. Ha scelto un luogo raccolto, intimo – in linea con la cifra del suo teatro e quasi in risposta agli ampi spazi di India. E lì ha incontrato i protagonisti di Perdtuamente uno ad uno, ponendo a tutti la stessa domanda: tu che cosa hai perso? Quel luogo era uno dei bagni, dove si sedeva nella penombra – giusto un led di luce rossa, satura, contrastava flebilmente il buio – a rispondere, raccontando la propria storia o la propria idea di perdita.
È ancora il rosso il colore dominante di questa istallazione, ora che i materiali raccolti sono stati lavorati ed esposti al pubblico. Il rosso, che è un’associazione molto diretta e semplice con l’idea della perdita in un luogo come il bagno (il sangue, la prima mestruazione), ma è anche e soprattutto una temperatura dell’ascolto. Entrando al bagno, anche per pura necessità e non per l’istallazione, si viene come “avviluppati” da un’atmosfera uterina, avvolgente, che rende lo spazio ancora più piccolo di cioè che normalmente è. Complice la luce rossa che pervade tutto, cambiando di segno al bianco neutro dei gabinetti. Di sottofondo vanno, il loop, le voci di tutti gli intervistati, gli uomini nel bagno dei maschi, le donne in quello delle signore (e in più di un caso è capitato di vedere persone andare nel bagno del sesso opposto – senza troppo scompiglio di chi vi si trova per motivi fisiologici – con l’obiettivo di completare l’ascolto con “l’altro lato” dell’istallazione). Sugli specchi appare scritta la domanda che ha scatenato tutte quelle voci – tu che cosa hai perso? – che si rincorrono come fantasmi lungo il piccolo vano del bagno. Mentre sulle pareti, tra una maiolica e l’altra, le foto degli intervistati si affastellano creando una mappa incompleta: solo un particolare dei volti è visibile, un occhio, il naso, la parte inferiore del volto. Così come la fruizione di «Bagno Rossi» non può che essere frammentaria, incompleta, fatta per tasselli che assumono un significato nel contesto dell’attraversamento più che nella storia in sé che viene raccontata. Un atto del perdersi che viene offerto al pubblico, per trasformare anche lo spettatore causale in un protagonista ipotetico di “Perdutamente”. Perché chi entra nei bagni di fatto si perde tra le voci degli artisti e le loro storie parallele – alcune intimiste, altre politiche, altre ancora legare al mestiere dell’artista – che disegnano un’idea di divenire tutt’altro che pacificata, un rapporto con la perdita che è allo stesso tempo luttuosa e di speranza. Ma, sempre e comunque, radicalmente personale.
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13. Level
Diana Arbib nel collettivo artistico Santasangre si occupa soprattutto del video. Per questo ha scelto di sfruttare l’occasione di «Perdutamente» per indirizzare lo sguardo altrove. Per dilatare i confini dell’oggetto spettacolo e le dinamiche della produzione – come hanno professato molti degli artisti coinvolti – a partire fin dal campo d’azione. Così nasce «Level»: una riflessione sul suono, una sperimentazione delle possibilità comunicative di un mezzo che non è abitualmente al centro della riflessione di Diana.
L’istallazione sonora è composta di due polarità, poste all’inizio e al centro del lungo corridoio che costeggia la sala B: tre ambienti che disegnano due elle continue, una capovolta rispetto all’altra (da cui nasce, in parte, il titolo del lavoro). La prima polarità è composta dall’ambiente più piccolo e meno “raffinato” del corridoio, dove si respira ancora l’atmosfera architettonica di inizio secolo, con porte e infissi in legno, che catapultano di colpo l’aura industriale di India in un tempo in cui la contiguità tra industria e artigianato non era ancora del tutto dissolta. Lì ascoltiamo le voci sonore, squillanti come ciottoli di ghiaia, di bambini intenti a fare la conta (forse in spagnolo). Di fronte alla grande porta di legno socchiusa sta una figura femminile senza volto, illuminata da una luce artificiale livida. Solo le aperture del naso sono visibili, non ha né occhi né bocca e con la sua rigidezza innaturale ricorda un vecchio episodio di “Ai confini della realtà”. Di colpo su quel volto non-volto si proiettano immagini di altri volti, occhi bocche e capelli che solo vagamente si trovano al punto giusto della faccia, ma che in realtà creano una leggera sfasatura che è anche percettiva. La donna non vede, non parla, non ne ha facoltà, ma è come se fosse agita dai fantasmi di altre persone. Immagine di grande potenza evocativa, che presa a sé fa pensare a un motivo pittorico, mentre in associazione con l’istallazione successiva, che si snoda nel corridoio più lungo, rimanda immediatamente a un’idea di menomazione fisica.
Già, perché nel lungo corridoio – questo più asettico, freddo, di cemento, industriale in modo più coevo a noi – si rimpallano a gran volume rumori di mortaio e di mitragliatrici. Suoni di guerra che schizzano da una parte all’altra delle pareti, alte e spoglie, come colpi impazziti. Il corridoio è al buio, illuminato soltanto dalla luce che viene dal fondo: una stanza cieca avvolta in celeste tenue che gli dona un’idea di carica elettrica, e fa sembrare il nudo muro bianco del teatro uno schermo di proiezione illuminato. In fondo al tunnel, la luce. Ma non è una luce che rassicura. È una luce che accentua l’idea claustrofobica, di assenza di via d’uscita, che pervade il corridoio carico dei suoni rombanti delle armi da fuoco.
La perfomance della donna senza volto (interpretata da Marta Bichisao di Opera) è presente solo alla giornata d’apertura e lo sarà forse di nuovo in chiusura. Nei prossimi giorni resteranno le impronte sonore, attraversabili da chi sceglierà di addentrarsi nel tunnel di «Level». Un ambiente e un dispositivo sonoro che ricordano un’altra epoca di questa città, quando i luoghi non deputati – occupati, abbandonati, improvvisati – erano il teatro naturale dell’ibridazione delle arti, e un’idea di performance senza steccati né barriere linguistiche prendeva piede pian piano in quella comunità (prima ancora che settore artistico) che chiamiamo teatro indipendente. Non che la commistione degli ambiti artistici non fosse già presente tra i teatranti: ma la prassi di quegli anni sul finire del secolo scorso, che immergeva il gesto artistico in contesti di attraversamento come i centri sociali, i rave, i grandi allestimenti , aveva cominciato a trasformare quel gesto da “vagito” in “grammatica”.
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