I "cambiamenti climatici" delle coreografie degli Mk si alternano alla composizione jazz-rock di Federica Santoro con Sebi Tramontana e Luca Tilli; mentre nel corridoio che porta al retro delle sale salgono stridori e bagliori del contest Bangalore
Passano i giorni e il clima cambia. E così fa Clima, la performance di MK, che porta nel nome questo dna che la spinge al cambiamento. Una performance “atmosferica”, più che un lavoro sull’atmosfera, dove l’aggregarsi dei vari corpi in scena si addensa come una nuvola per poi scaricarsi sul palco, in una danza di relazioni tra schegge impazzite che attraversano il palco senza collidere tra loro. Tutto questo era presente anche martedì 11 dicembre, ma l’apertura era affidata a due sole danzatrici in maglia rossa, che disegnavano rapidamente una coreografia fluida e frenetica, sul quale poi si sono innestati tutti gli altri “iscritti” all’ufficio del turismo performativo di MK. Sotto, le note della band inglese Archive, con il groove di “Bullets” – che l’atmosfera la dava, eccome. Poi la luce sfuma, i performer escono di scena, qualcuno nel buio solleva una metà del fondale nero: nel controluce appare Biago Caravano per una manciata di seconda, che danza una coreografia avvitata e furiosa. E di colpo la performance sfiora la poesia visiva e strappa immediatamente un applauso sentito.
Tra gli altri “cambiamenti climatici” di martedì si registra l’assenza di Daria Deflorian – per motivi personali – che ha portato Monica Piseddu e Antonio Tagliarini a redistribuire il testo di «Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni» tra loro due soli. Il risultato è una performance di colore diverso, o forse per l’appunto con un clima differente, dove però l’impossibilità di rappresentare l’immagine delle quattro anziane che si tolgono la vita per la crisi economica passa comunque e con medesima forza; così come il dispositivo che poi recupera quella stessa immagine, in sottrazione, e permette che si dipani in un discorso altro che dà corpo allo spettacolo. A dimostrazione di una grande forza del testo elaborato dal duo romano assieme a Monica Piseddu.
.
14. Divertimento
Era da tempo che non si vedeva un assemblaggio di immagini così spericolato e radicale come quello che ha proposto Federica Santoro col suo «Divertimento» – in collaborazione/complicità con Sebi Tramontana e Luca Tilli. Che sono il primo un performer e trombettista, il secondo un violoncellista. E di certo questa sponda nella musica non è casuale, visto che la richiama anche il titolo e che gli stessi passaggi improvvisi di scene e non-scene di cui è composto il lavoro presentato a «Perdutamente» ricorda molto da vicino l’improvvisazione musicale. Qui lo sfondo, però, è quello sentimentale: Federica Santoro ha scelto di concentrarsi sulla perdita dell’amore, tratteggiando momenti di isterismo ed ossessione fulminei, scene che si accendono e si spengono mentre altre azioni performative prendono piede con altrettanta velocità. Come il “ballo delle sedie” che Luca Tilli fa, accennando un’ipotesi di suono che si interrompe continuamente per cercare una posizione migliore (forse proprio come chi cambia partner in modo complusivo); o i duetti tra la tromba di Tramontana e il violoncello. Entrambi, poi, si trovano a tratti catapultate in scene da interno borghese, con la coppia in poltrona (Tramontana e Santoro) e il domestico (Tilli) a cui viene ordinato di prendere la vestaglia. Ma la scena è tutt’altro che da teatro borghese: un divano rosso, sedie sparse, una panca, oggetti, leggii. Regna l’informalità più completa, un tocco di anarchia, l’impossibilità di rappresentare alcunché se non barlumi di relazione – l’ossessione per le lettere d’amore, il non saper comunicare, il sospetto – tutti elementi che ci raccontano di mille cliché e non hanno nemmeno bisogno di essere sviluppati. Torna poi, di continuo, la sensazione del freddo. Tilli che si sfrega le mani all’inizio, Tramontana che chiede la vestaglia alla fine, e di nuovo tutti a sfregarsi le mani mentre cala il buio, sul finale – quasi a voler dire che è il gelo la temperatura del sentimento, o almeno i suo termine di paragone.
Vedere spettacoli così radicalmente performativi, con larghe parti di improvvisazione, ricorda una libertà di assemblaggio espressivo che era usata con maggior disinvoltura negli anni Novanta – come effetto, anche, del gusto estetico degli happening newyorkesi – e assai meno oggi. Ma rispetto a quegli anni, in questo lavoro, ci sono almeno due profonde differenze: in primo luogo si tratta di montaggi del tutto privi di monumentalità, e in secondo luogo l’ironia – il gesto picaresco che innerva il gesto del performer – è un’acquisizione davvero non secondaria, rispetto alla presunta “sacralità” del passato.
.
15. Bangalore (i primi tre contest)
Entrando nel corridoio di India dove si svolge Bangalore si ha l’impressione di essere stati catapultati in un film di fantascienza. I due sfidanti, uno di fronte all’altro, azionano leve, pulsanti, manopole e pigiano in continuazione su consolle che si animano di luci diverse, come impazzite: potrebbero sembrare tranquillamente i duellanti di un sofisticato gioco del futuro. E invece si tratta di un contest musicale dove non c’è alcuna sfida, ma ricerca dell’assonanza, compenetrazione del gesto che produce il suono, e stratificazione dei suoni prodotti fino a creare un tappeto d’ascolto. Ma sia chiaro da subito, non è un ascolto pacifico quello che Biagio Caravano di MK allestisce assieme ai suoi ospiti – che cambiano di volta in volta. È più un muro sonoro che investe le persone, schiacciate contro i muri del corridoio, attorno ai musicisti. Un’onda sonora che si fa esperienza performativa, tanto per la produce (che si contorce sulla consolle così come siamo abituati a vedere le rockstar avvinghiarsi ai loro strumenti) quanto per chi la ascolta.
Le casse dei rispettivi computer, poste a metà del tavolo, puntano verso l’altro, in grado così di sentire il suono. L’atmosfera si fa “carica” grazie anche ai due proiettori posti alle spalle dei musicisti, che fanno sembrare Bangalore una sfida dal gusto cinematografico. Il primo a incontrare Biagio è Riccardo Fazi dei Muta Imago. In questo primo incontro tutto si svolge a partire dalle consolle, dai rumori preimpostati e dall’improvvisazione sui filtri e le frequenze che li trasformano, a volte in modo aggressivo, altre trasformandoli in una sorte di “bordone” elettronico. Biagio aggiunge alcuni potenti fischi fatti al microfono, che si sommano come urla sulle frequenze già in ascolto.
Col secondo incontro si aggiunge un tassello: alla consolle c’è Luca Brinchi dei Santasangre, che dialoga, completa e sfida i suoi prodotti dalla consolle di Biagio; ma accanto, seduta e con un microfono di fronte, c’è Lisa Ferlazzo Natoli di Casa d’Argilla. Pur avvalendosi di effetti e distorsioni, Lisa utilizza sostanzialmente la sua voce, e lo fa portando dentro il suono artificiale una voce umana, intenta nell’atto più distante si possa immaginare in un simile contesto: la lettura. Sono le parole dello scrittore praghese Boumil Hrabal, tratte dal suo romanzo «Una solitudine troppo rumorosa», le parole scelte, lette e a volte urlate da Lisa. Scelta appropriata come rimando, in contesto di sfida rumorista come Bangalore. E la lettura a volte sale e si fa udibile anche nel senso, altre volte semplicemente sta lì, suono nel suono, strato d’ascolto su strato d’ascolto, a mischiarsi con l’attività frenetica degli altri due performer, intenti a manovrare i tasti delle loro postazioni.
Come di stanza nella plancia di una nave futuribile, forse addirittura di un’atronave. Così stanno anche nel terzo incontro di Bangalore i musicisti. Ma non seduti, bensì curvi sulla loro strumentazione. Anche in questo caso gli ospiti sono due, Iacopo Fulgi e Nicola Danesi de Luca dei Tony Clifton Circus. Il primo sta alla consolle e duetta con Biagio; il secondo si sovrappone con le parole, filtrate dagli effetti distorsivi di una pedaliera. Frasi smozzicate ma costanti si sommano al muro di suoni che Biagio e Iacopo costruiscono a colpi di tasti e manopole: “E così…”; “Io non capisco…”; “Incontrò il lupo…”: “Ah-ah…”; “Ed allora Cappuccetto Rosso…”. Brani di fiaba per brandelli di senso, ma ancora una volta non è importante capire quanto ascoltare. Quando poi la musica si placa è come se si fosse spento il rombo di un motore. Come se la musica evaporasse in una nuvola di fumo a contatto stridente col silenzio. E forse il centro inafferrabile di Bangalore sta proprio nell’equilibrio impossibile di questi due momenti che si negano l’un l’altro: quello del rumore sommato che diventa pieno musicale; e quello del silenzio, che lascia sfumare il suono, ma ci invade – noi che ascoltiamo addossati alle pareti – con la stessa spinta fisica con cui ci ha toccato il corpo l’onda sonora.
News
-
Una giornata fatale del danzatore Gregorio Samsa
-
Roma in versi
-
È nato il nuovo canale Instagram della Fondazione Teatro di Roma!
-
Visita spettacolo al Teatro India
-
Teatro di Roma, nominato il nuovo Consiglio di Amministrazione
-
Il Teatro di Roma diventa Fondazione
-
Carta Giovani Nazionale
-
Art Bonus - Sostieni il tuo teatro!