L'esperimento a "pelle nuda" di Lucia calamaro, che porta in scena pezzi del suo lavoro accanto alla performatività esplosiva dei Tony Clifton Circus, con la complicità di Lisa Natoli. Mentre Andrea Cosentino mostra al pubblico l'embrione del suo nuovo lavoro, una critica feroce e divertente al mondo dell'arte contemporanea (e c'è spazio perfino per una performance abusiva di Dario Aggioli e Marco Ceccotti, mai entrata ufficialmente in programma...).
Anche le performance estemporanee, fuori programma, trovano spazio nella fitta programmazione di «Perdutamente». Forse prendendo spunto da Andrea Cosentino, autore di una performance parassita con un Artaud accattone ai margini delle strade dei festival, Marco Ceccotti e Dario Aggioli – che con Cosentino hanno collaborato – si sono ritagliati dieci minuti di performance nel foyer. Nessuno li aveva invitati, né Lavia (il loro nome non spicca tra le 18 compagnie) né gli artisti della Factory. Ma tutto ha seguito comunque il suo corso. La performance consisteva in un piccolo servizio a pagamento: Dario Aggioli si è reso disponibile a prendere schiaffi dal pubblico a pagamento: fino a 2 euro per un buffetto, 4 per uno schiaffo serio, 8 con maggior veemenza, 10 un pestaggio in piena regola. Risa, diffidenza, curiosità: il primo a buttarsi con energia è una vecchia conoscenza del teatro di innovazione, Simone Carella. Altri seguono, tra l’incredulo e il divertito. Qualche soldo tintinna nelle casse da artisti di strada di Ceccotti e Aggioli. Poi le porte delle sale si schiudono e Perdutamente riprende il suo corso.
15. Diario del tempo
Un viaggio onirico senza lirismo visivo. Un esperimento senza misura e senza forma. È quello che hanno proposto Lucia Calamaro e i Tony Clifton Circus in «Diario del tempo», con la complicità di Lisa Natoli. L’esigenza di Lucia Calamaro era di mettere a confronto, così, in forma nuda, il modo di stare in scena dell’irriverente duo di clown con il suo, con il suo fare ancora scoperto e senza forma. Ne è uscita una lunga cavalcata in mezzo a un territorio sconosciuto, a volte ostico, ma carico di fascino. Un lungo flusso di pensieri, letti da Calamaro e Natoli, intervallati da brevi intermezzi dei Tony Clifton – una bambola canterina a cui viene dato fuoco; un enorme palloncino gonfiato a dismisura fino a scoppiare; un’improbabile coro naif proposto da Nicola Danesi che intona «Reginella Campagnola», mentre Calamaro e Natoli si coprono la faccia, a ritmo di musica, con dei cartelli che riportano l’“oh-oh-oh” del ritornello. E tutto questo accumulo di materiale – i testi per altro, per quanto abbozzati, hanno una potenza espressiva già molto spiccata – sembra un cosciente e continuo sabotaggio della forma spettacolo. Lucia Calamaro e Lisa Natoli (che “può essere me pur essendo sé”, come ha detto l’autrice affidandole le sue parole) ci traghettano verso mondi di riflessioni sospese, pensieri che si generano per attrito col mondo esterno ma poi si dilatano a dismisura: un’Io narrante che si confronta con l’esigenza sociale di essere presentabili, di mettersi “in bella copia”, a cui fa da contraltare il desiderio di essere vecchie per potersi sottrarre a questa costrizione; il confronto tutto visivo con una sconosciuta vicina, questa sì vecchia, intravista dalla finestra mentre passeggia sulla terrazza, un essere solo immaginato nella sua solitudine, forse contenta di morire e lasciare quella terrazza appassire per via del tempo. E ancora altri guizzi di immagini, spunti, riflessioni ironiche – “non tutti gli autori possono essere ridotti a post-it, Lacan sì” – che si lanciano come schegge impazzite nel vuoto della scena e si porta dietro, nel suo orbitare impazzito, elementi diversi da sé, come l’uomo ragno in carrozzina o l’uomo in ambito bianco con la busta di carta in testa (ma che, tolta, non rivela un volto ma ancora la maschera dell’uomo ragno). Tutto galleggia come in un universo in fase di aggregazione, come fa materiale cosmico che vaga impazzito prima collidere, esplodere, aggregarsi e poi diventare stella, trasformarsi in luce.
16. Non ora, non qui
Andrea Cosentino ha portato dentro perdutamente la sua riflessione sulla perfoming art e l’attrito di questa con la forma teatro. Un lavoro che era già in cantiere, ma che ha trovato al Teatro India la sua prima formalizzazione. Perché? Che cosa c’entra Marina Abramovic – che il leit motif, la vittima sacrificale e iconica dello spettacolo di Cosentino in fieri – con il concetto di perdita? Si potrebbe rispondere che è proprio la perdita del confine tra arte e vita a caratterizzare la riflessione del performing art. Oppure, come fa Cosentino, si potrebbe ironizzare su l’opportunità strategica di fare entrare in un format come «Perdutamente» i propri ragionamenti anche a costo di stiracchiarli un po’ («Dice, che hai perso? A Lavia: hai perso li sordi», chiosa la maschera romana dell’autore-attore). Ma a dirla tutta un nesso c’è e si rende palese già nel titolo: «Non ora, non qui». L’hic-et-nunc predicato dalla performance in risposta al posticcio dell’arte, soprattutto di quella teatrale, che nel suo essere rappresentazione rimanda sempre a un altro tempo e un altro luogo. Un ragionamento già sentito, che trova però una sintesi nelle parole di una dei massimi esponenti dell’arte contemporanea, Abramovic, secondo cui “in teatro il coltello è finto e il sangue è ketchup, mentre nell’arte performativa il coltello è un vero coltello e il ketchup è sangue”. Una concezione che ha trovato i suoi limiti nel lavoro della stessa Abramovic, che dopo aver sottoposto il proprio corpo a una serie di “iniezioni di realtà” per quarant’anni, si è resa conto – a suo dire – che per chi guarda tutto questo resta comunque spettacolo (insomma, non ti cambia l’avita, come vorrebbe il manuale del bravo artista performativo). Andrea Cosentino, allora, ha gioco facile nel ridicolizzare l’effetto di questo pensiero che si sviluppa per anni per poi avvilupparsi su se stesso (senza smettere però di guadagnarci su, perché nel mercato dell’arte un “nome” resta sempre un “nome”) con i mezzi del teatro. Ci fa vedere una serie di finti video di azioni performative, compiuti da deliranti cloni dell’Abramovic (Marina Aiutovic, Marina Appesovic e via dicendo), tutti interpretati dallo stesso Cosentino che indossa un vistoso naso finto e una parrucca nera da cui ricava una lunga treccia. Con un’estetica che ricorda un po’ i corti d’esordio di un altro geniale visionario dell’ironia che ci circonda che è Antonio Rezza. Dico che ha gioco facile perché il campo dell’impasse è già servito, ma ciò non toglie che le iperboli di Cosentino siano toccate una per una da lampi di autentica genialità. La stessa genialità con cui chiude questa prima uscita del suo nuovo lavoro: una performance in cui si accoltella per davvero con un coltello finto – potremmo dire – spruzzando poi fiotti di ketchup al posto del sangue. Sangue finto con cui, per terra, per chi non lo avesse capito, con quel didascalismo naif proprio di certa arte visiva, traccia la scritta che fa da etichetta al suo gesto performativo intriso di finto dolore: “Bua”.
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