Sandro Veronesi e Nicola Lagioia – invitati da Christian Raimo e Veronica Cruciani – raggionano attorno alla perdita della persona amata, tra letteratura, arte e psicanalisi. A seguire la mise en espace di un testo dell'autore catalano Jornet racconta proprio la difficoltà di distacco dal dolore della perdita.
18. La perdita della persona amata
La seconda delle conferenze organizzate da Veronica Cruciani e Christian Raimo – «Non raccontate mai niente a nessuno» è il titolo del progetto – è dedicata alla perdita della persona amata. L’amore visto nella sua accezione ossessiva e la difficoltà del distacco è stato il tema su cui si sono confrontati gli scrittori Nicola Lagioia e Sandro Veronesi, con il sottofondo del lavoro visivo dei Santasangre e dei Muta Imago. Ma è la stessa Veronica Cruciani ad aprire la conferenza con un monologo che racconta la sostanziale equivalenza fisica tra il sentimento della paura e quello del dolore per la perdita della persona amata. Veronesi esordisce citando Freud e la sua concezione della libido, che noi indirizziamo prima verso noi stessi e poi verso oggetti fuori di noi. Ma il dolore che provoca il distaccarsi della libido dall’oggetto resta, tuttavia, un mistero anche per lo psicanalista. È quello che chiamiamo “lutto”. Tuttavia spesso la libido si sposta da un oggetto all’altro, e dunque il perché un distacco possa risultare doloroso – anche quando esiste già un valido sostituto per la nostra libido – resta un mistero dal punto di vista clinico (anche se, ovviamente, comprendiamo tutti il senso del lutto). È proprio quel dolore che ci fa temere l’attaccamento a una persona, ad esempio, perché sappiamo in fase di distacco di poter soffrire. La sofferenza è il vero tema dell’amore romantico: libri, film, opere d’arte raffigurano l’amore soprattutto nell’ambito della sofferenza per la perdita. È un comportamento dato per scontato, socialmente riconoscibile. Se anche una persona decide di soffrire a vita per la perdita del partner, nessuno ritiene che sia pazzo – solo che stia soffrendo troppo. In realtà il distacco dall’oggetto amato è, tecnicamente, una “liberazione”: ci libera dal rapporto con quell’oggetto, ci apre nuove prospettive che magari spaventano, sostanzialmente è una “liberazione dell’energia” della libido. Una liberazione d’energia della mente, che deve reimpostare il nostro posto nel mondo. Ovviamente può essere – e spesso è – una librazione scomoda: la nostra mente, “chiusa” in precedenza, magari è “chiusa” nella propria felicità, e l’apertura può dunque risultare dolorosa a causa della fine di quella situazione di felicità. È però indubbiamente quella “apertura” della mente, quella liberazione dell’energia, ad essere alla base di molta forza creatrice. Il punto, però, secondo Veronesi, è che noi possiamo arrivare a fissare il dolore e decidere di non abbandonarlo mai, sostituendolo alla persona amata. L’energia librata, in quel caso, si rivolge contro di noi e diventa lesiva – anche perché, presi dalla perdita di punti di riferimento, può accadere che non sappiamo che farcene di quell’energia liberata e la indirizziamo, dunque, contro noi stessi. Non c’è alcun fondamento biologico in questo, solo quel “mistero” del lutto in cui abbiamo deciso, collettivamente e socialmente, di affondare.
Nicola Lagioia cerca invece di proporre un quadro variegato dell’amore ossessivo, del tratto luciferino che accompagna questo amore. Cita “Urlo e furore” di William Faulkner, “Sotto il vulcano” di Malcolm Lowry, “Lolita” di Vladimir Nabokov. L’amore luciferino è un amore che porta conoscenza e al quale noi ci aggrappiamo, perché ci specchiamo in lui vedendo al suo interno la parte migliore, depurata, di noi stessi. Amiamo quell’immagine specchiata di noi, e lo facciamo senza narcisismo, ma riconoscendoci in essa. Eppure, proprio come l’angelo divenuto diavolo, alla conoscenza fa seguito la “caduta”. Una caduta che può essere estremamente dolorosa e mettere a rischio (persino di vita) chi la prova. Ma quell’amore, quella conoscenza, sono una parte fondamentale della vita. La domanda di Lagioia, allora, è “come si fa a vivere senza morire”? Poiché senza dolore non c’è conoscenza, ma di troppo dolore si muore. La verità, secondo Lagioia, sta nel margine; perché occorre arrivare all’estremo, al margine appunto, ma senza superare quella soglia: oltre c’è la pazzia, la schizofrenia, la morte.
Mentre di due scrittori proseguono il loro dibattito, dietro il fondale di “velina”, trasparente, Luca e Roberta dei Santasangre e Claudia e Riccardo dei Muta Imago ripropongono alcuni dei brani citati su uno schermo dietro di loro. Lavorano con una lavagna luminosa, che proietta a tutto campo alcune frasi scrivono sulla perdita della persona amata. Non solo l’amore romantico, ma anche quello filiale. Una delle frasi cominciano a scriverla attorno all’ombra di un mazzo di chiavi (“la chiave appartiene alla casa di mio padre – scrivono – mancato tre anni fa…”).
19. “Due donne che ballano”
A chiusura della conferenza sulla perdita della persona amata, Veronica Cruciani ha invitato Teresa Saponangelo e Angela Pagano a presentare il lavoro che stanno preparando, che ruota attorno a questo tema. «Due donne che ballano» è un testo dell’autore catalano Joseph Maria Jornet, che le due attrici hanno presentato in forma di mise en espace. Anche se solo in fase di lettura, il testo ha assunto un’estrema godibilità, grazie alla forza interpretativa delle due attrici, calate nei panni di una donna anziana non più autosufficiente e una donna più giovane, colta, laureata, che si ritrova a lavorare per lei. Sembrerebbe un contesto dettato dalla crisi, e invece quello che porta la giovane nella casa dell’anziana e scorbutica donna è una difficoltà al lavoro legata a una perdita. Lei, insegnante, fa fatica a lavorare coi ragazzi da quando ha perso il figlio, morto a causa del marito durante uno dei frequenti litigi con lei. Un dolore che la debilità, che la trasforma quasi un “paria” (non è più in grado di lavorare, guadagna meno e continua ad andare a lavoro nonostante un senso di umiliazione costante) perché sostanzialmente non vuole liberarsene. “Se smetto di pensare a lui scomparirà del tutto. E io non voglio che scompaia del tutto”, dice. Esattamente l’analisi fatta da Veronesi nella conferenza: il dolore, per quanto distruttivo, finisce per sostituire la persona che è venuta a mancare, e noi così ci attacchiamo ad esso, arrivando a sperare che non finisca. Quando poi la donna più vecchia è costretta ad abbandonare la casa con la prospettiva di finire in ospizio, subentra la scelta di farla finita. Chiede aiuto alla giovane, che non solo l’aiuta, ma decide di uccidersi anche lei. Non si tratta dell’idea romantica, per quanto assurda, di poter rivedere il figlio nell’aldilà; lei non è credente. Si tratta piuttosto della scelta di alleviare il dolore ad ogni costo: non potendolo abbandonare, preferisce abbandonare la vita. Ecco allora il ballo finale delle due donne, strette in uno strenuo abbraccio di sostegno dopo aver ingurgitato una gran quantità di pillole chiuderla del tutto con una situazione insostenibile. Per chiuderla del tutto con un’assenza – del figlio, dell’autosufficienza – che non riescono più a sopportare.
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