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Andrea Cortellessa
Lungo Pagliarani
Ce l’hanno insegnano a scuola: la letteratura vive nella storia. Come ogni cosa che appartenga alla vita, del resto. Ma c’è modo e modo. La maggior parte degli scrittori, oggi, non fa altro che produrre storie, una quantità infinita di storie. Magari perché così, mentre ci rimpinziamo delle loro storielle, non pensiamo che intanto la Storia prosegue, pare precipitare anzi, certo non aspetta chi rimane indietro. O forse perché da qualche tempo in qua la Storia, quella che ci riguarda tutti, è diventata sempre più difficile da raccontare.
Poi però ci sono altri scrittori. Sono scrittori che vengono da lontano, e da lontano vengono i loro testi. Se quegli altri passano tutto il loro tempo al mercato a cercare di sbolognare i loro mille lavoretti, questi invece ci mettono anni a scriverli, i loro testi, anzi decenni. Alle volte non fanno neppure in tempo a vederli pubblicati in vita. E così, magari anche al di là delle loro intenzioni, queste loro opere recano su di sé le macchie, gli urti, le ferite della Storia. Rispetto al tempo in cui viviamo le loro scritture sono termometri sempre in azione, segnavento che non si fermano mai; ma, così a lungo esposte al vento della Storia, finiscono per funzionare anche come accumulatori, giacimenti, immensi archivi viventi d’una Storia che continua a passare senza essere mai passata del tutto. Penso – per parlare solo degli ultimi decenni – all’Italia sepolta sotto la neve di Roberto Roversi, a Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo, ai libri di Luigi Di Ruscio come Cristi polverizzati e Palmiro. Scrittori così sono autori d’una «storiografia espressionista» – come ama definirla uno più giovane ma della stessa razza, Gabriele Frasca – che il giacimento della memoria ara in lungo e in largo, che rumina senza fine su quello che a noi appare magari un dettaglio insignificante (e che a posteriori ci si rivela, invece, la prima crepa del futuro che s’avventava – e che ora è il nostro presente), per poi balenare mercuriali dall’altra parte del campo. Se ogni Storia è anche una Geografia, gli storiografi espressionisti sono cartografi anamorfici: una piega minima del territorio può espandersi sino a mostrarsi un’immensa catena montuosa, la più fiera delle metropoli può apparire un minuscolo villaggio. Un catino d’acqua diventa il mare.
La lunghezza è la caratteristica più appariscente della parola di Pagliarani. A partire dalla Ragazza Carla, e poi in misura devastante in Lezione di fisica e nella Ballata di Rudi, quello di Pagliarani è un verso che si espande sempre più, oltre ogni misura conosciuta dalla tradizione italiana (e con buoni titoli, mi pare, per candidarsi a veri primati mondiali) sino a doversi frammentare – per poter essere “retto” dal fiato del declamatore – in due o più “scalini”. Sino al limite estremo, rappresentato dal XXVII e ultimo pannello della Ballata che, come ricorda ogni suo lettore, è costituito da un unico verso di ventisette sillabe, scandito in quattro “scalini”: «Ma dobbiamo continuare \ come se \ non avesse senso pensare \ che s’appassisca il mare» (Tutte le poesie – da ora in poi TP –, Garzanti 2006, p. 336). Proprio per questo, com’è noto, a partire dall’edizione Feltrinelli 1968 di Lezione di fisica e Fecaloro Pagliarani si risolve a impaginare i suoi libri coi versi in verticale (sarà anche il caso della Ballata nella princeps Marsilio 1995) e, in quel libro monstre, ricorrendo altresì a una misura fuoriformato (cm 32 x 12,5) che non mi è stato possibile riprodurre nella citata edizione 2006 di Tutte le poesie (1946-2005). Non ha più senso, evidentemente, misurare in sillabe i versi informali di Fecaloro: i quali, al culmine del finale Fecamore, equivarrebbero comunque a più di quaranta sillabe d’un verso tradizionale (TP 223).
Dopo exploit del genere, lo stesso Pagliarani ha sentito la necessità di cambiare strada: nella Nota agli Esercizi platonici (pubblicati nel 1985, ma nella concezione e per gran parte della stesura posteriori alla Ballata licenziata dieci anni dopo) dichiarandosi «prigioniero, almeno in parte, come avevo incominciato a sentirmi, del mio verso lungo, sempre più lungo, della fisarmonica spalancata» (TP 256). Il verso a fisarmonica per la verità non mancherà di tornare, occasionalmente, negli ultimi versi licenziati da Elio (per es. negli epigrammi Per il 2000 immediato futuro, che sono del ’97: cfr. TP 439 sgg.), ma certo – a voler racchiudere la sua intera avventura poetica in un unico gesto d’immensa portata – il fisarmonicista comincia la sua ballata a strumento quasi del tutto chiuso, gradualmente lo apre negli anni Cinquanta, lo tiene tutto «spalancato» negli anni Sessanta e Settanta, per richiuderlo bruscamente a partire dagli Ottanta, modulando variamente – con leggero effetto di vibrato, diciamo – nel finale.
Se il verso di Pagliarani è così lungo, è perché deve accogliere tante cose. La volontà di includere porzioni di realtà le più ampie possibili è una costante della sua poetica; e materialmente il verso pare estendersi a misura della portata di tale prelievo. Si va da un verso già assai lungo nelle sin dal titolo “neorealistiche” Cronache del primo libro (per esempio nei Goliardi delle serali, già vero «racconto in versi») a un verso minimo, quasi minimalista, nel sin dal titolo “esistenzialista” Inventario privato; la fisarmonica comincia a fare un’escursione alquanto ampia in certi frammenti “cinematografici” della Ragazza Carla, per estendersi al massimo – come detto – nell’addirittura “cosmologico” Lezione di fisica. L’escursione del verso si riduce al minimo, negli Esercizi, col ritorno a un tono gnomico, sapienziale (è lo stesso Pagliarani a citare il precedente di Inventario privato), che non fa più diretto riferimento all’osservazione della realtà (mentre torna ad essere consistente, a tratti, negli Epigrammi: che – sia pure con la mediazione straniante del prelievo da Savonarola o Martin Lutero – non mancano di confrontarsi satiricamente col presente).
Ma la parola di Pagliarani non è lunga – cioè inclusiva – solo nello spazio. Lo è soprattutto, lo si accennava, nel corso del tempo. Un’altra caratteristica del suo percorso – altrettanto appariscente, ma assai meno studiata e commentata – è infatti l’elaborazione strenua, macerante dei suoi libri più importanti. Abbiamo letto da poco la sorprendente autobiografia in prosa, il Pro-memoria a Liarosa (prefazione di Walter Pedullà, Venezia, Marsilio, 2011), che reca l’eloquente sottotitolo (1979-2009): a segnare l’escursione fra il momento della concezione (al terzo compleanno della figlia Lia, appunto) e di gran parte della stesura, e quello in cui il testo è stato licenziato per le stampe. Ma già nel caso della Ragazza Carla, come sappiamo, l’edizione in volume dovette attendere il 1962 mentre la pubblicazione integrale su rivista – sul «Menabò» – risale a due anni prima (le prime anticipazioni a stampa sono invece al ’59: su «Nuova Corrente» e sul «verri»). La circostanza ha sempre assai crucciato Elio (specie per la “concorrenza” con un altro testo di consimili ambizioni, La capitale del Nord di Giancarlo Majorino: che lo “batte” sul filo di lana uscendo, con qualche mese d’anticipo sulla Ragazza, nel ’59), il quale ha sempre rivendicato come già in precedenza il poemetto su Carla Dondi avesse conosciuto una sua circolazione “pubblica” (al punto di figurare autocitato, come quasi proverbiale, nel finale del libro editorialmente precedente, Inventario privato: che è del gennaio 1959).
Di recente Luigi Ballerini ha finalmente provato, ricostruendo la Preistoria della «Ragazza Carla» (nel suo volume 4 per Pagliarani, Piacenza, Scritture, 2008), che la storia tante volte narrata da Elio – di aver concepito il racconto addirittura nel ’47-48 («una cartella e mezzo per un eventuale soggetto cinematografico da proporre, possibilmente, alla coppia De Sica-Zavattini»: cito da Cronistoria minima, TP 466), e di averlo scritto a partire dall’autunno 1954 – non è affatto da considerarsi un lacerto mitobiografico, una retrodatazione narcisistica (pratica cui, com’è noto, tanti autori indulgono): in un’agenda del ’48, conservata fra le carte di Elio, si trovano davvero i primi, per quanto remoti, abbozzi del poemetto (e in altri block notes, datate al ’52-53, versioni già quasi definitive di poesie pubblicate molti anni dopo). Commenta Ballerini che la vicenda basta a «confermare che i testi di Pagliarani concrescono come stalagmiti, con l’infinita pazienza di una sedimentazione a sorpresa» (4 per Pagliarani, cit., p. 24).
Una descrizione che, se calzante per i quindici anni di gestazione della Ragazza Carla, ancor meglio si attaglia – si capisce – ai quasi trentacinque della Ballata di Rudi. Che questo testo-monstre – in senso diacronico non meno di Lezione di fisica in senso sincronico – fosse alla lettera (oltre che in accezione, magari, psicoanalitica) interminabile lo testimonia la nota, impaziente ancorché ironica, che di questa storia già annosa (ma ben lungi dal vedere la conclusione) dà conto l’autore nel riportare un estratto del testo su «Quindici» (numero 18, luglio 1969):
La Ballata di Rudi l’ho cominciata nel maggio del ’61 e non l’ho ancora finita: ma non è che ci lavori tutti i giorni. I brani qui riportati sono stati scritti o impostati fra il ’63 e il ’65, la finzione è che l’ambiente sia il dodicennio 49/60, cioè dalla fine dell’immediato dopoguerra agli inizi della attuale società del benessere.
Dove si capisce che, se la definizione di «romanzo in versi» non è ancora vulgata, già all’altezza del ’69 Pagliarani percepiva e ostentava, della Ballata, il carattere di romanzo storico: entro il quale, infatti, i primi capitoli descrivono l’«immediato dopoguerra» – il tempo mitico, fra l’altro, in cui un giovane Elio, maestro alle scuole serali, concepisce il suo primo poemetto… – cioè un periodo antecedente d’un buon quindicennio rispetto all’inizio della composizione (il titolo del pannello I, mutuandola dal primo verso del resto, s’affretta a introdurre la datazione «estate del ’49»: TP 259); mentre gli ultimi, gli ultimi all’altezza del ’69 beninteso, si collocano «agli inizi dell’attuale società del benessere» (cioè, possiamo opinare, alla fine degli anni Cinquanta): pensiamo a capitoli come i XIV-XV-XVI, con la storia del «pelato» puttaniere che specula all’estero e spedisce Armando, il tassista protagonista di questa parte della Ballata, in missione in Venezuela; o (spostandoci magari nei pieni Sessanta) al fantastico XIX, Adesso la Camilla gioca in Borsa: con «la Camilla» appunto che, dopo aver vissuto sessant’anni nel mondo dell’onesto, duro, materiale lavoro tradizionale, ora ci resta male a guadagnare, in un anno di speculazione immateriale, «più che in quarantacinque di lavoro»: perché «vuol dire che fino all’anno scorso \ ho sbagliato tutto». E che conclude: «Io non accetto il cambiamento: o era giusto prima o è giusto adesso / non è che sono matta nella testa: difendo la vita nella sua interezza» (TP 314).
Dopo l’interludio rappresentato dal prelievo dal Doppio trittico di Nandi che risale agli anni Settanta (XXIII, TP 321-325; Rosso corpo lingua Oro pope-papa scienza era uscito, in versione integrale, presso la Cooperativa Scrittori all’inizio del ’77, ma lo si poteva già leggere su «Periodo ipotetico», nel luglio del ’73), i quattro ultimi capitoli sono databili agli anni Ottanta (o primi Novanta): ormai scritti a ridosso, dunque, della sospirata pubblicazione del poemetto (nel 1995, s’è detto, nella collana di poesia di Marsilio diretta da Giovanni Raboni). Lavoro interminabile, s’è detto, La ballata di Rudi: alla cui uscita Pagliarani infine si decide con spirito non troppo diverso, direi, da quello col quale 1957 Carlo Emilio Gadda s’era arreso alla pubblicazione di Quer pasticciaccio brutto de via Merulana: l’«apocope drammatica» su cui (non) si conclude il testo essendo per l’autore il segno, paradossale quanto perentorio, che esso fosse da considerarsi a quel punto «letterariamente concluso» (cito da due interviste, rispettivamente del ’67 e del ’68, ad Alberto Moravia e a Dacia Maraini: «Per favore, mi lasci nell’ombra». Interviste 1950-1972, a cura di Claudio Vela, Milano, Adelphi, 1993, p. 147 e p. 172). Concluso letterariamente: cioè “tecnicamente” improseguibile.
Come del resto ogni romanzo storico che si rispetti, tanto La ballata di Rudi che Quer pasticciaccio brutto de via Merulana sovrappongono, sovrimprimono due tempi l’uno sull’altro – in un’immagine dialettica. Ma, appunto come nel “giallo” di Gadda (ambientato nel 1927 e scritto a partire dal 1945-46), nei primi capitoli della Ballata tale sovrimpressione è resa più sottile, e a tratti quasi impercettibile, dalla escursione assai ridotta che intercorre fra il tempo della finzione narrativa e il tempo della scrittura. C’è però una rifrazione ulteriore (che nei romanzi storici resta invece sempre inavvertita: perché ha in genere, in effetti, estensione minima): quella costituita dal tempo ulteriore che divide l’inizio della scrittura dalla sua inconclusa conclusione, dall’apocope drammatica che le mette capo. Nel caso della Ballata, però, questa seconda rifrazione ha invece un’estensione smisurata, quasi quarantennale come abbiamo visto: che, al di là della sua misura quantitativa, disegna non due ma tre Italie, completamente diverse fra loro. C’è l’Italia 1949 dalla quale prende le mosse la narrazione; c’è l’Italia di una dozzina di anni dopo, l’Italia del boom in cui la narrazione viene concepita e iniziata; e c’è infine, un trentennio abbondante ancora dopo, una terza Italia, quella degli ultimi capitoli: che è poi l’Italia in cui la narrazione viene licenziata e, finalmente, pubblicata.
È proprio questa doppia rifrazione a fare della Ballata di Rudi, oltre che uno dei massimi capolavori letterari del nostro secondo Novecento, uno straordinario osservatorio storico sul nostro Paese: sulle sue illusioni generose, sulle sue atroci disillusioni. Nel prendere congedo dalla già citata Cronistoria minima redatta per l’edizione dei Romanzi in versi negli Oscar Mondadori, nel ’97, scriveva infatti Pagliarani (TP 470): certo al tempo della Ragazza Carla non solo l’autore coltivava «svariate idee d’amore e di ingiustizia», ma anche tutto il nostro Paese: non così certamente negli anni della conclusione della Ballata, e anche prima, anche molto prima.
Proprio la lunghezza nel tempo della Ballata – che dunque, a differenza della Ragazza, può accogliere in sé tanto quelle «idee» che la loro fine – la rende, davvero, un “libro di storia”. Dove lo sguardo – il grande, spaventoso sguardo monoculare di Elio – si allarga, nello spazio e nel tempo, sino ad abbracciare l’intera Italia degli anni del boom – e dello sboom. E quella allegoricamente, impietosamente illustrata dagli ultimi pannelli è un’Italia in rovine. Al mondo d’acciaio della Ragazza Carla, dalla durezza implacabile ma almeno riscattabile, s’è sostituito un impersonale, spettrale scambio di risorse immateriali. E il paesaggio italiano registra immediatamente, in misura catastrofica, questo sfaldarsi di contorni e valori. Già vent’anni fa diceva Elio (nella voce Pagliarani Elio dell’Autodizionario degli scrittori italiani, a cura di Felice Piemontese, Leonardo, Milano 1990; TP 461): «Nel frattempo però il suo paese natale […] non c’è più, è scomparso: come se gli avessero tolto una sedia di sotto il sedere […] Adesso […] è tutto un Rimini nord, tutto alberghi e pensioni […], con ignoranza e presunzione rubiconde di benessere». (Il tema del falso benessere attraversa tutto l’ultimo Pagliarani e inevitabilmente si confronta con Pasolini, maestro avverso un tempo detestato, ma infine riconosciuto con rabbia – in una bella poesia dedicatagli a vent’anni dalla morte: TP 436-437.)
L’emblema di questa storia è il mare. Questa forza arcipossente che tutti ci trascina, tutti ci comprende. Ma che si comincia a pensare – con quello che una volta sarebbe apparso un adynaton, un’impossibilità retorica – possa un giorno «appassire». Nelle varie stesure della Ballata – che lasciano traccia in diversi dei suoi pannelli, sino alla vera e propria mise en abîme rappresentata dall’ultimo – di volta in volta Elio esita, si corregge… «ha senso» o «non ha senso», «pensare che s’appassisca il mare»? Si decide, infine, per una soluzione di mezzo. La più stoica, la più morale: «Ma dobbiamo continuare \ come se \ non avesse senso pensare \ che s’appassisca il mare».
In fondo, in questo modo, Elio ci fa sentire la medesima protesta della sua Camilla. E ha perfettamente ragione a insistere che non è matto nella testa. Il fatto è che, lui come lei, difende la vita nella sua interezza. La vita, davvero, è quella che dobbiamo continuare.
Testo pubblicato nel Dossier Elio Pagliarani, a cura di Walter Pedullà, «Il Caffè illustrato», XII, 68, settembre-ottobre 2012
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