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A Malacorte sono rimasti in tre: cuoco, ministro e re.
di Michele Bandini e Emiliano Pergolari
Giocando sulle meschinità di una corte annoiata, abbiamo sentito il bisogno di proiettare il contesto del regno nell'universo desolato dell'assurdo, in un non-luogo, fuori da un tempo e da uno spazio definiti, impiegando il comico nelle sue tonalità più cupe e grottesche.
"Una situazione sospesa, indefinita, un trasformismo che diventa frustrazione, affanno, una corte confusa, malamente votata allo svago. Lo sforzo privo di sbocchi di giocare al teatro.
Il tempo sembra fermo, il luogo chiuso, l'altrove impossibile.
Tre superstiti: il Re blasfemo che si sostituisce a Dio, il potente che si proclama più forte di Dio, Re-Dio di se stesso, libero dal mondo e dagli uomini, in un tempo di devozione e bestemmia; il Ministro tormentato da se stesso, in un'affannata corsa al travestimento, il gioco come memoria nostalgica, un passatempo reiterato, tra vestiti fastosi e consunti di un glorioso passato; il Cuoco assorto nei propri pastrocchi, intento a cucinare senza sosta quel tanto che rimane da mangiare, ovvero niente.
Malacorte come nosocomio fatiscente del potere, una corte caduta in disgrazia, un grottesco gioco al massacro; ai tre, una volta liberatisi dal popolo, dai sudditi, dopo averli diseredati e affamati, non rimane che chiudersi tra quattro mura a sopravvivere, a tirare a campare, fino ad esaurimento scorte.
Il testo
Il testo è una nostra scrittura. Il nostro secondo esperimento drammaturgico.
Come ogni nostro lavoro di scrittura o ri-scrittura, il testo Malacorte è nato con lo spettacolo, seguendo tutte le peripezie e i ripensamenti tipici di un lavoro creativo vivo e in movimento. Alcuni passaggi testuali erano in origine semplici appunti d'improvvisazione o di lavoro pensati, in realtà, per altre situazioni sceniche. La scrittura in una prima fase ha seguito un percorso inconsueto, durante il quale è stato come se fosse la parola stessa a cercarci, come se il senso di quello che avremmo scritto e detto fosse già chiaro, ancora prima di sapere su che cosa avremmo lavorato. Dopo una lunga gestazione abbiamo trovato un'idea che ci convinceva, il punto di partenza dal quale iniziare a lavorare: un regno in malora, una corte allo sfascio, e tre figure, tre ombre: un re, un ministro e un cuoco.
Il Percorso
Malacorte nasce da un lungo percorso fatto di tappe di verifica e studio.
A brusche accelerate si sono alternate soste fatte di ripensamenti e di rivoluzioni durante le quali lo spettacolo ha preso lentamente forma, arricchendosi dei tanti spunti e delle diverse suggestioni offertici dai molti incontri e confronti che abbiamo avuto. Fra questi, quelli con Marco Martinelli, Ermanna Montanari e Piergiorgio Giacchè sono stati sotto molti aspetti fondamentali. Con grande rispetto per il nostro lavoro, e soprattutto con generosità e saggezza di sguardo, ci hanno regalato traumatiche e meravigliose spinte in avanti, decisive per proseguire.
Il Linguaggio e il Dialetto
Abbiamo lavorato sulle potenzialità di un linguaggio immediato, diretto, giocato tra ferocia e comicità, lirismo e visionarietà, che, insieme ad elementi sonori e musicali, potesse diventare una voce profonda della scena e di quel mondo sgangherato.
Il folignate, la nostra lingua, a differenza dei lavori precedenti, in Malacorte diventa per noi un'ombra, l'ombra di ciò che si cela dietro la pantomima, dietro al grottesco gioco al massacro fatto di screzi, insulti, provocazioni e imprecazioni del Re e del Ministro. Il folignate, in quanto dialetto e come degenerazione dell'italiano, diventa così lingua della caduta, dell'abbrutimento grottesco, lato nascosto di una natura terribile.
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