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Julia Varley, storica attrice dell'Odin Teatret, parla di "Il figlio di Gertrude" che ha diretto. Con Lorenzo Gleijeses, figlio d'arte, da oggi al Crt-Salone
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di Anna Bandettini
Non era prevedibile che si incontrassero, figuriamoci che lavorassero assieme, che lei diventasse la maestra di lui, che insieme condividessero la "voglia di stare in scena" vivi credibili e avvincenti per il pubblico. Da una parte Julia Varley, attrice del Odin Teatre di Eugenio Barba, il riferimento più prestigiose e importante per diverse generazioni di teatro di ricerca in tutto il mondo, dall'altra Lorenzo Gleijeses, che è un figlio d'arte (suo padre è l'attore Geppy), che è cresciuto ammirando Regina Bianchi, studi nel teatro di tradizione: due "mondi" teatrali distanti, inavvicinabili, indifferenti l'uno all'altro che invece hanno collaborato, lavorato assieme e il risultato è il figlio di Gertrude - Una storia di Napoli, ins cena al Crt-Salona da stasera, una piccola importante curiosità teatrale con Lorenzo attore e Julia regista.
"Ero a Napoli durante una tournèe dell'Odin a Galleria Toledo nel 2002 e Lorenzo partecipava a un mio seminario di tecnica vocale - racconta Julia Varley del Messico dove è in tournèe con l'Odin - Ricordo che aveva difficoltà a memorizzare e ripetere con precisione una scena. Ma era uno che non rinunciava. Anzi, alla fine mi chiese di continuare a lavorare con me. Gli risposi che l'unica possibilità era che mi inseguisse. E da quel momento Lorenzo mi ha inseguita ovunque. Io gli ho dedicato il tempo libero, spesso le mie vacanze".
Lo spettacolo è stato realizzato in tre anni di incontri tra voi, con la partecipazione di altri artisti dell'Odin, Jan Ferslev per le musiche, Augusto Omolù per i movimenti. Che strana cosa è?
"E' difficile riassumere un processo così lungo. Siamo partiti dal lavoro di attore, da cose basilari come la sincronizzazione delle azioni fisiche con quelle vocali, dal dare radici al corpo di Lorenzo che agiva in scena, Lorenzo di suo mi proponeva testi in napoletano di Ruccello e Moscato. A poco a poco, si è costruita una partitura di movimenti, di musiche e anche di parole.
Come siete arrivati a raccontare la storia di Amleto visto dalla mamma?
"Il tema della pazzia c'era già in uno dei testi di Ruccello. Dalla pazzia siamo arrivati alla ribellione tipica dei giovani, dunque ad Amleto e con lui ad Ofelia. In più in quel periodo leggevo "Una storia in Danimarca" di John Updike in cui Gertrude non è presentata come traditrice e adultera ma come figlia, madre e sposa che cerca di evadere da una realtà che la soffoca. Mi piaceva, mi pareva il modo giusto di capovolgere la tematica dello spettacolo riportandolo al femminile: Lorenzo, il figlio, si dibatte per tutto lo spettacolo ma alla fine, tra le macerie la madre, si alza e se ne va".
E Napoli che c'entra?
La storia è quella di un ragazzo di Napoli di oggi, orfano di padre e in conflitto con la madre, che vorrebbe incontrare il fantasma del padre, che cerca e rifugge amore, che non sa scegliere tra Totò e Pino Daniele, tra il coltello, il calcio o il reggae per dar forma alla sua ribellione".
Quanto c'è di Lei e dell'Odin in questo spettacolo?
Il rumore dei passi della madre che esce di scena esprimono una mia domanda: dove va e cosa diventa una donna quanto non è più figlia madre sposa?
Considera questo Figlio di Gertrude un suo figlio?
"E' uno dei risultati dei miei giorni liberi che ha cominciato a camminare con le gambe proprie".
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