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Go down, Moses

9 – 18 gennaio 2015

di Romeo Castellucci
regia, scene, luci, costumi di Romeo Castellucci
testi Claudia Castellucci e Romeo Castellucci

Lo spettacolo

Il lavoro trasfigura i differenti momenti della vita di Mosè, così come ci vengono narrati nel libro dell’Esodo. Nelle vicende di quest’uomo vi è qualcosa che inerisce la sostanza del nostro tempo. Come nel Mosè di Michelangelo –descritto nelle pagine che Freud ha dedicato a quest’opera-  il profeta del monoteismo è presentato come un uomo che reagisce di fronte alle difficoltà che questo Dio –senza nome e senza immagine– gli pone innanzi: l’abbandono del suo corpo neonato nelle acque del Nilo; il mistero del roveto ardente, dove si manifesta -nel kabod – l’abbacinante e terribile splendore della gloria di YHWH; i quaranta giorni passati sul monte Sinai, dove riceve le tavole della legge; e infine la scoperta, al suo ritorno, del vitello d’oro eretto dal suo popolo per essere adorato.

Il personaggio Mosè è dissolto nelle scene, tralascia la narrazione biografica per estendersi su concetti, sentimenti e caratteri presaghi di una rivelazione che agisce ora, nel tempo attuale. Mosè è avvicinato allo sguardo dello spettatore, sostanziando ogni elemento dello spettacolo, concepito per quadri e frammenti; vibrazioni psichiche che emergono come increspature nello spazio-tempo della vita quotidiana, oscuramente percepita come esilio.

Il titolo evoca la celebre canzone spiritual degli schiavi neri d’America, che si identificavano con il popolo ebraico, in quanto preveggenza del loro ritorno all’Africa. Gli israeliti, capaci di ritornare dall’esilio di Babilonia e -grazie a Mosè– di affrancarsi dalla schiavitù di Egitto, erano il simbolo della loro prossima liberazione, così come ora, quel canto degli schiavi d’America, può significare la condizione della nostra schiavitù incorporea, in esilio dall’essere.

Due immagini convogliano e guidano questo lungo spettacolo, come le facce di una stessa medaglia: il roveto ardente, che rappresenta la vera immagine, che nega ogni rappresentazione – “ io sono colui che sono”  e il vitello d’oro, che invece raffigura la falsa immagine, quella illustrativa di quella stessa frase. Tutto quello che sta in mezzo è l’oggetto di questo lavoro.

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