Edo Bellingeri – Verso una drammaturgia della storia
L’Esposizione Universale di Luigi Squarzina.
Il dramma L’Esposizione Universale appartiene al primo periodo dell’attività di Squarzina. A una fase in cui la sua crescita in ogni campo del teatro appare ancor più sorprendente, se si pensa che, iscritto a Giurisprudenza, Squarzina confessa di essere entrato nell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “senza vocazione teatrale”, unicamente per seguire il gruppo degli amici che la frequentavano, Vittorio Gassman, Adolfo Celi, Mario Landi, Vittorio Caprioli, Luciano Salce.
In Accademia, l’allievo senza vocazione scopre i suoi reali interessi. Vuole superare la situazione d’arretratezza culturale che accompagna la fine del fascismo verso i primi, difficili, anni del dopoguerra. Considera il teatro come strumento di rispecchiamento critico e di rigenerazione della società. Attribuisce alla regia il compito di rinnovare la scena italiana in tutti i suoi aspetti. Gassman e Salce lo ricordano come l’asceta del gruppo, animato da moralità metafisica. Acutissimo e polemico. Amante della dissonanza. Non solo perché era mostruosamente stonato, tengono a precisare. Timido, ma capace di bianche collere in difesa delle sue teorie.
La sua forte personalità si manifesta già nelle prime prove. Nel 1944, un anno prima del diploma in Regia, Squarzina mette in scena un proprio adattamento di Uomini e topi di Steinbeck. Quindi, insieme a Moravia, cura la versione teatrale del romanzo Gli indifferenti. Nel ‘47, la sua regia di L’uomo e il fucile di Sollima è premiata al festival Mondiale della Gioventù di Praga. Per la prima volta in Italia, porta in scena Erano tutti miei figli di Miller. Rappresenta, con il piglio del regista riformatore, O’Neill, Ibsen, Turgenev. Nel 1950 dirige il Teatro Ateneo dell’Università di Roma. Nel ’51 la Compagnia del Teatro Nazionale insieme a Guido Salvini.
Condivide progetti e iniziative con i giovani interpreti suoi coetanei, Gassman, Manfredi, Buazzelli, per citarne solo alcuni. Ma lavora anche con la precedente generazione di attori, ad esempio, con Luigi Almirante e con Renzo Ricci, portatori di un modello teatrale che egli intende superare, ma senza disconoscere i meriti della tradizione di cui fanno parte.
Contemporaneamente, Squarzina unisce alla pratica della scena lo studio del linguaggio teatrale. Come dimostrano la pubblicazione delle Regole per l’attore di Goethe, la specializzazione, conseguita a Yale, in Metodologia della Storia dello Spettacolo, il lavoro all’Enciclopedia dello Spettacolo, diretta da Silvio d’Amico.
In un tempo assai breve, Squarzina getta le basi della sua prismatica identità. Votata a coniugare la scrittura drammaturgica con la scrittura scenica, la teoria con la pratica teatrale. Ma anche la tradizione con l’attualità, il rigore filologico con nuove versioni interpretative. Come dà prova, nel 1952, la sua messinscena dell’Amleto, all’inizio di una svolta radicale nell’attualizzazione del repertorio classico.
In tale incrocio di attività e di studi, dopo una stesura durata tre anni, Squarzina porta a compimento, nel 1948, L’Esposizione Universale. A cui è assegnato il “Premio Gramsci per il Teatro”, nel 1949, da una prestigiosa giuria composta da Orazio Costa, Eduardo De Filippo, Stefani Landi, Vito Pandolfi, Paolo Stoppa, Luchino Visconti.
Sembrerebbe la migliore garanzia per un immediato debutto. Ma, contrariamente alle attese, la rappresentazione del dramma è impedita da ragioni politiche che nemmeno la pubblicazione del testo, nel 1950, riesce a rimuovere. E a nulla vale, in tale circostanza, l’appello di Vito Pandolfi che, nel denunciare la situazione di difficoltà in cui sono costretti il teatro e la cultura, anche dopo il fascismo, rivendica la necessità di dare spazio sulla scena alle opere, come quella di Squarzina, in cui si manifesta un severo esame della situazione contemporanea.
Quando termina L’Esposizione Universale Squarzina ha ventisei anni. Ma la sua scrittura non conosce incertezze, sostenuta da una vocazione etico-politica che egli professa – e che continuerà a professare – in piena autonomia, senza cedere alle semplificazioni dell’ideologia o ai precetti della militanza, come accade in buona parte del teatro politico del Novecento. La scrittura di Squarzina non presuppone una verità o una tesi. Non nasce per dare risposte. Fa perno, invece, su una prospettiva critica che fa emergere le relazioni dell’uomo con l’ambiente, con i poteri con cui entra in conflitto, con le crisi che si generano sul piano individuale e sociale.
Tale prospettiva pervade il dramma L’Esposizione Universale, in cui la condizione del dopoguerra è colta in un gruppo di sfollati accampati all’Eur. Una comunità che vive miseramente dentro i monumentali palazzi eretti a glorificazione dei destini imperiali del fascismo, prima occupati dai tedeschi, poi dagli alleati, su cui sta per abbattersi un devastante progetto di speculazione edilizia.
Il fuori sesto del dramma è tangibilmente trasmesso dalla visione dello spazio. Alla grandiosità degli interni, al perfetto ordine architettonico, si contrappone una realtà caotica, informe, che richiama l’immagine di una torre di Babele dopo il crollo. Ovvero quella di una Pompei i cui abitanti siano sopravvissuti alla catastrofe. Uno spazio promiscuo, disseminato di brande, letti a castello, infissi posticci, panni stesi, stracci, attrezzi di fortuna.
Con una tecnica che molto deve a Ibsen, ai Tessitori di Hauptmann, all’Albergo dei poveri di Gorki, il primo atto dell’Esposizione Universale consiste nella rassegna dei personaggi. In bilico fra un passato – la guerra – che ha sconvolto le loro esistenze e un presente che li aliena, è come se l’intero mondo continuasse a passare sopra di loro dilaniandoli “col suo ventre dentato”, per citare una battuta del testo. Non sono eroi. Ma persone comuni, ai margini della società.
Sono Emma, una vedova con due figlie, Lucia ed Elli. La prima gravemente ammalata, la seconda dedita a piccoli commerci illegali con la complicità di Tamburini. Un brigadiere di polizia, di cui è divenuta l’amante. Insieme a loro, ci sono Bartali che sogna di diventare un campione del ciclismo ma che, intanto, vende bibite e gelati con il suo carretto a pedali. Un fotografo, a corto di pellicola e di immagini da immortalare. Un professore epurato perché rimasto fedele al fascismo ma, soprattutto, alla memoria del figlio ucciso dai partigiani. Un profugo istriano, avvocato senza più cause da difendere.
Con altri personaggi di minore profilo, sono l’emblema di un popolo sconfitto e abbandonato che, tuttavia, reagisce alle emergenze della vita quotidiana con reciproca comprensione, con gesti solidali. Ma tre eventi modificano la situazione iniziale del dramma. Il trasferimento del brigadiere Tamburini in Sicilia. L’intervento di Barzilai, un sedicente giornalista che, simulando di svolgere un’inchiesta a beneficio degli sfollati, sta organizzando un colossale investimento immobiliare nella zona dell’Esposizione. L’arrivo di Remo, infine. Uno sbandato sfuggito alla cattura della polizia, dopo avere colpito il Ministro degli Interni nel corso di una manifestazione di disoccupati.
La nuova situazione determina lo sviluppo del secondo atto.
Dopo un fallimentare tentativo di diventare pugile, Remo si è stabilito all’interno dell’Eur, rivelando senso pratico e altruismo. Eletto rappresentante del campo profughi, s’industria a migliorarne la vita, sostenuto dall’amore di Elli che lo aiuta a superare le sue insicurezze. La metamorfosi di Remo è il segnale della crescente speranza che investe la comunità dei profughi. Ma la rigenerazione personale e collettiva appena avviata è interrotta dal ritorno di Tamburini e da quello di Barzilai.
Poiché, per garantire sostentamento alla sua famiglia, Elli si unisce di nuovo al brigadiere quando torna dalla Sicilia, la sua scelta determina la crisi di Remo che si lascia invischiare sia dalla proposta di Barzilai di diventare suo complice nell’esecuzione del piano d’evacuazione del campo profughi sia dalla proposta di matrimonio fatta dalla sua figliastra, Nora, la quale, sposando Remo, può entrare in possesso dell’eredità della madre prima della maggiore età, svincolandola dal suo tutore.
Il movimento del secondo atto è marcato da una parabola ascendente che precipita rovinosamente. In Remo, la speranza è soppiantata dal cinismo, la lealtà dal tradimento. La sua crescita è cancellata dal cedimento alle proposte di Barzilai e di Nora.
In una fase cruciale, Remo e gli sfollati sono messi di fronte a una svolta. Le loro scelte rivelano la psicologia, il carattere, la tenuta etica, il peso che tali fattori hanno nel determinare gli eventi, con conseguenze non solo sul piano personale. Come dichiarerà più tardi Squarzina: “La politicità è, per me, una visione pubblica, collettiva, dei problemi dell’individuo”.
Tale visione si addensa, nel dramma, sul confronto fra due città. La prima, edificabile su ciò che resta dell’Esposizione Universale, promossa dal concorso solidale degli sfollati. La seconda, invece, voluta da Barzilai e dai suoi soci che, dopo avere svuotato dei suoi abitanti l’Esposizione Universale, la trasformeranno nello spazio destinato al flusso elitario del turismo internazionale, sostenuto da un sistema di malaffare in cui la speculazione immobiliare si fonde con le complicità della politica.
Nel terzo atto, alle prime luci dell’alba, si compie lo sgombero del campo alla presenza della polizia in assetto di guerra capitanata da Tamburini.
Corrotto e ricattato da Barzilai, Remo ha simulato di difendere i profughi dai provvedimenti presi dalle autorità. Per poi convincerli a lasciarsi trasferire in un nuovo campo vicino ai Parioli. Dopo avere ricevuto da Barzilai il compenso del suo tradimento, Remo sposerà Nora con cui dividerà gli agi consentiti dal patrimonio che la ragazza riceverà dal suo tutore. Ma gli intrighi del terzetto sono fortuitamente scoperti da chi, fra gli sfollati, si è attardato nello sgombero. Mentre Remo e Nora scoprono, a loro volta, di essere stati ingannati da Barzilai, perché il patrimonio della ragazza è stato interamente investito nel piano di ristrutturazione dell’Esposizione Universale.
In un finale che, per il rapido succedersi degli eventi, lascio alla sorpresa del lettore e dello spettatore, la situazione precipita. Barzilai è ucciso. E coloro che sono rimasti dentro il palazzo dell’Esposizione Universale, Elli, Remo, il fotografo, il professore, decidono di mandare un loro compagno a richiamare gli sfollati che si sono trasferiti nel nuovo campo.
Vogliono difendere il proprio territorio insieme a coloro che vi ritorneranno. Se necessario, anche con le armi che hanno accidentalmente rinvenuto. Perciò devono prendere tempo. Convincono Tamburini a parlamentare. Si illudono di averlo persuaso a rinviare l’intervento della polizia. Ma Tamburini, che ha potuto constatare l’esiguità delle loro forze e che vede nella circostanza l’occasione di fare carriera, ordina l’assalto. Nello scontro a fuoco, gli ultimi occupanti dell’Esposizione Universale sono uccisi.
Al cronista giunto per documentare l’accaduto Tamburini fornisce quella che diventerà la versione ufficiale dei fatti. Si è trattato – dichiara – di un ricatto matrimoniale con estorsione del consenso. Di un episodio di delinquenza comune, sullo sfondo di un traffico d’armi, aggravato dalla resistenza alla forza pubblica.
All’agente che in seguito gli chiede “E le indagini? Le famiglie si muoveranno, i giornali”. “Si muovano pure – risponde Tamburini – non troveranno che un fatto di cronaca nera […]. Forse per noi incomincia un nuovo periodo. Vuoi scommettere che riprenderanno i lavori? L’Esposizione può diventare una cosa importante. E noi con lei, che sarebbe ora”.
Nel suo dramma, Squarzina elegge un gruppo di sfollati a metafora della società italiana durante la transizione dalla dittatura alla democrazia. Ne mette in luce i mali storici e le emergenze quotidiane, ponendo in rilievo la distanza che separa i poteri della politica, dell’economia e della finanza, dalla gente comune e dagli emarginati, denunciando le conseguenze pervasive, in alto e in basso, di un’azione corruttiva già avviata a diventare sistema. Il modo in cui tali temi sono sviluppati sul finire degli anni Quaranta, spinge al confronto con le parole d’ordine sulla rigenerazione morale e politica che il nuovo corso della storia italiana avrebbe introdotto dopo il fascismo. Un confronto scomodo che spiega, all’epoca, l’intervento della censura e l’indisponibilità della nostra scena a rappresentare il dramma. Ma tale da provocare, anche oggi, stringenti riflessioni sulle nostre città divise, sulle odierne Esposizioni Universali con tutto ciò che comportano.
Nella sua opera giovanile, Squarzina ci proietta oltre la conclusione del testo. Sollecitandoci a proseguire in un percorso che, muovendo dalla consapevolezza della storia, ci obbliga a valutare la nostra condizione nel mondo, senza ricorrere a una presunta neutralità prospettica, ma anche senza l’illusione che i mali dell’essere sociale possano essere eliminati attraverso la guarigione fornita dalla mera consapevolezza artistica.
Come per i maestri su cui si è formato, per Ibsen, Brecht, Pirandello, anche per Squarzina il dramma moderno non ha il compito di fornire soluzioni. Tantomeno quello di soddisfare gli spettatori secondo le formule in voga, ma di provocarli a mettersi in discussione attraverso l’analisi delle criticità dell’io e della società che sono loro stessi ad alimentare.
Chi aderisce a questo tipo d’impresa, a questa visione del teatro – scriverà Squarzina – “lo fa perché gli ripugna allinearsi fra gli oppositori innocui, l’equivalente visto da sinistra della categoria degli utili idioti vista da destra. Gli ripugna svolgere azioni di pompieraggio, di disinnescamento […]. Gli ripugna affiancarsi alla scuola nel compito odioso di far venire su dei giovani ideologicamente paraplegici”.
La funzione drammaturgica che regge L’Esposizione Universale è approfondita nelle opere della maturità di Squarzina, Tre quarti di luna, La Romagnola, Cinque giorni al porto, Otto Settembre, Rosa Luxemburg. Composte, le prime due, su trame d’invenzione. Costruite, le altre, su eventi reali della storia contemporanea. Ma la differenza non deve ingannare. Poiché, in entrambi casi, Squarzina produce un medesimo orientamento che, attraverso la situazione esposta nel dramma, chiama in causa l’attività dello spettatore, sollecitandolo a trasformare il suo ruolo di mero destinatario dello spettacolo.
Al livello più alto della sua produzione di autore e di regista, sia nell’incontro con le tendenze più impegnative della drammaturgia contemporanea, sia nell’attualizzazione dei classici, come nella direzione di importanti istituzioni, il Teatro Stabile di Genova e quello di Roma, come negli studi accademici, Squarzina ha segnato la cultura e il teatro per oltre mezzo secolo, protagonista di una stagione irripetibile, ma con valori e con finalità con cui è necessario confrontarsi ancora oggi. Poiché il teatro – ci ricorda Squarzina – è quasi l’unica forma di artisticità rimasta a contraddire la riproducibilità e la massificazione, a interrogare criticamente la società e la storia e a sapere proporre disinteressatamente l’uomo all’uomo.
Dopo il Convegno dedicato a Squarzina dalla Fondazione Cini a Venezia nel 2012, dopo la pubblicazione degli Atti, nel 2013, da parte dell’Accademia dei Lincei, grazie al Teatro di Roma andrà in scena in questa stagione L’Esposizione Universale con la regia di Piero Maccarinelli, accompagnata dalla pubblicazione del testo presso Bompiani. Si tratta non solo della giusta riparazione per un dramma escluso dalla scena italiana perché “irrappresentabile” secondo le ideologie dominanti, ma di un’occasione da cui trarre nuovi stimoli in una situazione in cui la cultura e il teatro sperimentano oggi un’oggettiva difficoltà: nel riconoscimento pubblico, nella propria funzione sociale e nella propria capacità di proposta.