Rassegna stampa
Il Sole 24 ore – Renato Palazzi – 18/12/2016
Va reso merito a Rodolfo Di Giammarco per avere fatto del suo festival “Il garofano verde” un vero spazio di incubazione di idee e di progetti: lui invita artisti, magari lontanissimi per stile o per interessi, a realizzare studi o letture sul tema dell’omosessualità, da cui nascono spesso proposte sorprendenti o innovative. Da lì sono passati – cito a caso – Giancarlo Cauteruccio, Licia Lanera, Antonio Latella, nonché Saverio La Ruina con questo Masculu e fìammina che ha debuttato ora, nella sua forma definitiva, a Milano, dove l’autore-attore è stato ospite per la prima volta del Piccolo Teatro. Saverio ha conquistato fama e premi con due monologhi, Dissonorata e La borto, in cui dava vita a figure di donne del Sud vittime di una società retriva e soffocante. Ha quindi vestito, in Italianesi, i panni di un uomo senza patria e senza radici, il figlio di un militare italiano nato e cresciuto in un lager albanese, e poi in Polvere quelli di un maschio prevaricatore e ossessivo nei confronti della propria compagna. Il ruolo del mite e dolente gay di provincia che affronta in questo nuovo spettacolo aggiunge dunque nuove, sottili sfumature alla già ricca gamma dei suoi toni interpretativi. Per descrivere l’esistenza segreta del protagonista, Peppino, «nu masculu ch’i piacciono i masculi», costretto a vivere di nascosto la propria identità di genere per non esporsi al dileggio del paese, dove l’unico altro omosessuale riconosciuto viene seguito per strada al grido di ricchiù, ricchiù , Saverio sceglie la strada più tenera e delicata, quella della lunga confessione di costui sulla tomba della madre. In una giornata di neve, nel cimitero deserto, Peppino racconta alla morta quello che probabilmente lei aveva già intuito da tempo, senza essere riuscita però a dargli un nome. Dall’affettuoso resoconto affiora l’immagine di un’adolescenza travagliata, nel corso della quale l’uomo aveva inventato persino una sorta di autoterapia per imporsi una presunta “normalità”, affiora un tragico episodio, quello di un ragazzo con cui lui era stato sorpreso «chi ni tuccàvimu» nei bagni della palestra, e che si è ucciso per la vergogna. Anche la relazione con Alfredo, il grande amore di Peppino, incontrato durante una vacanza a Riccione, si conclude drammaticamente, col giovane di Treviso che muore a causa di un’aggressione subìta mentre i due si appartano in auto. Lo spettacolo descrive una vicenda come tante, crudelmente prevedibile nella sua tipicità. Non è un lancinante documento antropologico come Dissonorata, non svela uno spiazzante squarcio storico come Italianesi, e non ha neppure l’impatto provocatorio di Polvere. Lo sviluppo narrativo è lineare, senza scosse. Spiccano, più che i passaggi di una sofferta accettazione di sé da parte di Peppino, certi vividi dettagli della vita quotidiana, le vicine di casa, la cena di Capodanno con la mamma e le zie, o certe fantasie naïf sull’aldilà – pronunciato così, con l’accento sulla i – che dovrebbe essere un luogo tutto azzurro, l’inferno e il paradiso, San Pìetro – anche lui con la i accentata – che divide chi ha letto bene e chi ha letto male la Bibbia. L’impressione è che a sostenere il testo sia soprattutto la solita, vigorosa costruzione linguistica, quel dialetto aspro, ma capace di una musicalità quasi ipnotica, e che la trama serva piuttosto a far da spunto per la superba prova recitativa di La Ruina: alle prese con una materia scomoda, a rischio di scabrosità da un lato, di buoni sentimenti anti-omofobi dall’altro, lui si tiene in mirabile equilibrio, traccia un misuratissimo ritratto umano, fatto insieme di rimpianti e rassegnazione, e in quel legame fra madre e figlio ci mette una sua particolare dolcezza personale. Il finale, in cui si sdraia sulla tomba, coprendosi di neve, con l’intento di risvegliarsi «in un mondo più gentile», è un piccolo colpo al cuore.
La Repubblica – Anna Bandettini – 18/12/2016
Nel panorama della drammaturgia contemporanea italiana, Saverio La Ruina è una personalità anomala interessante: le sue storie sono struggenti spaccati di vita di un io narrante che disegna l’ironica, violenta, sfaccettata e ricca di personaggi realtà dei piccoli paesi del Sud, comunità semplici ma anche chiuse, retrive, soffocanti. Negli splenditi Dissonorata e La Borto, pluripremiati monologhi, per esempio, usava il suo corpo vestito da donna per mostrare la femminilità offesa ma orgogliosa, in qualche modo ribelle al modello maschile; in Italianesi ripercorreva il viaggio all’incontrario, verso l’Italia, di un bambino rimasto con la famiglia prigioniero nei campi di prigionia albanese. Solo in Polvere l’unico lavoro a due voci e in italiano, prendeva un’altra strada, raccontando un caso di violenza maschile sulle donne. Ora nel nuovo Masculu e Fìammina – il debutto al Piccolo Teatro di Milano – Saverio La Ruina torna alla forma dei primi lavori: un solo personaggio che ha l’innocenza, la sprovvedutezza ma anche la luce di speranza, il gesto iconoclasta, per cambiare un destino. Qui siamo nel piccolo cimitero coperto di neve di un piccolo paesino del Pollino, dove Peppì parla alla madre che non c’è più per raccontarle «l’ata vita meia. Quidda c’un canòscisi», «l’altra vita mia che non conosci». Perché a Peppì piacciono gli uomini: è un omosessuale, un “masculu e fiammina”, come li chiamava la madre, “nu ricchiunu” «paroli chi fanu pinzà a chissà qualu dimoniu». E siccome le parole contano, Peppì dice di essere «nu masculu, punto. Sungu nu masculu ch’i piacinu i masculi», dice. Ma nel conformismo del piccolo paese non è semplice. Peppì racconta di quando bambino gli piaceva guardare le gambe dei compagni a scuola, e i ragazzini al mare del “Lidu Aragosta”, le prime disillusioni – Gianni, il ragazzo che gridava “viva Marx” ma sparisce quando scopre l’omosessualità di Peppì – i primi incontri, Enzu, Vittorio e finalmente l’amore con Alfredo, ucciso una notte dalle bastonate di qualche omofobo. Vent’anni dopo, poco è cambiato: lì nel cimitero, ormai tranquillo signore, Peppì confessa alla madre di avere un sogno: ibernarsi per svegliarsi un giorno e vivere “in un mondo più gentile”. Dal punto di vista attoriale questo lavoro è un po’ più convenzionale e anche il racconto non è sempre teso come i precedenti. Alcuni capitoli, per esempio, risultano troppo d’effetto senza reale necessità. Sembra mostrare la difficoltà a trovare una evoluzione fertile di questo stile di teatro. Ma conta la forza del suo valore culturale e civile: perché se è vero che si celebrano finalmente le nozze gay, è vero anche che essere un “masculu e fiammina”, specie nel Sud, è ancora un’avventura nei pregiudizi, negli stereotipi spesso proprio maschili, come gli uomini che dopo essere stati con Peppì hanno la pretesa di dire: “però u ricchiunu si tu”.
delteatro.it – Maria Grazia Gregori – 16/12/2016
Il nuovo spettacolo di Saverio La Ruina della compagnia Scena Verticale di Castrovillari, Masculu e Fìammina (maschio e femmina) in scena al Teatro Studio Melato di Milano, prima volta dell’attore calabrese al Piccolo è, allo stesso tempo, coraggioso, ironico e commovente. Da solo nell’emiciclo del teatro, infatti, in un bellissimo e a volte misterioso dialetto calabrese ci racconta la storia di un ragazzo che scopre a poco a poco, a dodici anni, di essere omosessuale magari amando i film con il muscoloso Steve Reeves oppure affascinato dalle gambe, dalla fisicità dei compagni di scuola. Quello che racconta è già stato vissuto, con i dolori, le piccole gioie, i silenzi, le paure, le violenze, la ricerca di un amore vero, il desiderio di essere accettati, che sbatta nella spazzatura quel finto perbenismo – in realtà una forma di razzismo non solo linguistico – che sta racchiuso nel termine “diverso”. “Diverso da chi?” si chiede con rabbia ma anche con ironia il protagonista. E questa domanda è alla base dello spettacolo. Siamo in un cimitero freddo, coperto di neve. Qui un uomo, dopo aver deposto un mazzo di fiori sulla tomba della madre, decide di “parlare” con lei che è morta. Una madre affettuosa, discreta, che forse ha intuito senza chiedere mai, ma con squarci di sincerità –ricorda lui – come quel “statti attiantu”, stai attento, quando usciva o quella frase pronunciata a mezza voce di fronte a quel figlio che non mangia, che sta zitto, che soffre quando gli dice che le piacerebbe sapere chi è quel “cornuto” che lo fa essere così. E poi silenzio, solo silenzio. Ma adesso che la madre è morta – e il figlio le chiede se Gesù, la Madonna, San Pietro si sono fatti vivi con lei nell’al di là – l’uomo trova finalmente le parole per dire la sua verità, le parole che non ha mai detto. E il racconto si snoda febbrile, irrefrenabile, storia della vita di un uomo qualunque, che ha conosciuto il segreto, le offese, qualche delusione come quella ai tempi di Lotta continua e del Collettivo Carlo Marx dove si sente rifiutato proprio perché omosessuale, e Vittorio, Angelo, il professore, fino all’amore grande, quello con Alfredo. Alfredo vittima di una spedizione punitiva, Alfredo che muore. La sorella e i genitori di lui lo invitano a Treviso come migliore amico del ragazzo morto ma sono pronti a sparire, lasciandogli una grande amarezza quando, tornato in Calabria, gli manda una lettera raccontando l’amore che c’è stato fra lui e Alfredo. Masculu e Fìammina non accusa nessuno fuorché, con accorata pacatezza, l’ignoranza e il pregiudizio. Ci parla di una grande solitudine, di un mondo chiuso, di silenzi che non si possono riempire, di un grande punto di domanda sulla vita. A dargli voce, pensiero e presenza c’è Saverio La Ruina. Solo, inchiodato da un occhio di bue dai contorni non definiti, l’attore rappresenta il suo personaggio senza dargli una banale rilevanza formale. Il senso della sua forte, incisiva interpretazione, infatti, sta tutto nella gestualità mai retorica, in una sicurezza senza sicumera, in una sorvegliata sensibilità, in un sentimento così poco esibito da sembrare vero. Da vedere.
www.controscena.net – Enrico Fiore – 15/12/2016
Di due poesie mi son ricordato mentre l’altra sera assistevo a «Masculu e fìammina», lo spettacolo di Saverio La Ruina che Scena Verticale presenta al Piccolo Teatro Studio Melato: due poesie fra loro diversissime (parlo di «Consolazione» di D’Annunzio e di «Supplica a mia madre» di Pasolini) e che, tuttavia, proprio per questo finiscono a costituire, insieme, un ossimoro che rimanda direttamente al titolo di La Ruina e all’articolarsi dei temi più profondi del suo testo. Infatti, in entrambe le poesie a cui mi riferisco c’è un figlio che parla con la madre: ma se nel caso di D’Annunzio e di Pasolini quella madre è viva, nel caso di La Ruina è morta, il figlio, Peppino, si rivolge alla sua tomba. E di qui lo scarto sostanziale e, pure, il punto di contatto tra i primi versi delle due poesie: «Non pianger più. Torna il diletto figlio / a la tua casa. È stanco di mentire» (D’Annunzio) ed «È difficile dire con parole di figlio / ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio» (Pasolini). L’ossimoro, dunque, riguarda le parole. C’è bisogno di dirle per portare alla luce una verità troppo a lungo taciuta e, nello stesso tempo, se ne ha paura per la loro incapacità di comunicarla esattamente, quella verità. Il Peppino di La Ruina, che adesso confessa apertamente alla madre la propria omosessualità, dichiara di conseguenza che «su tutti sbagliati i paroli pi dici sta cosa». E sbotta: «Beatu u popolu c’un va apprìassu i paroli». È appunto per questo, allora, che Peppino confessa la propria omosessualità alla madre solo dopo che è morta: perché ora lei non può sentire le parole inadeguate e, perciò, impotenti con le quali lui è costretto a fare quella confessione. E di qui, poi, la serrata strategia dilatoria messa in atto da questo figlio. Il quale, avvicinandosi al momento fatidico della confessione, si trincera, per ritardarlo, in tutta una serie di digressioni: vedi il racconto degl’incontri l’uno dopo l’altro, mentre sta dirigendosi verso il cimitero, con Pina (non a caso un transessuale) e con l’amica Lina. Un testo bellissimo, questo di La Ruina. Tutto in stretto dialetto calabrese (più esattamente si tratta del dialetto della zona di confine fra la Calabria e la Basilicata), suona, dunque, un po’ misterioso per chi non è di quelle terre. Ma va bene così, perché, appunto, parliamo di un ossimoro. E ferrea e leggera ad un tempo è la coerenza interna che connota e sorregge «Masculu e fìammina». Senza parere, ad esempio, La Ruina fa dire a Peppino, quando Lina lo rimprovera di cambiare ricordo mentre ne sta esponendo un altro: «Ohi Lì, ji un cangiu propiu nenti, […] jè sempi u stessu ricordo, sulu ch’i ricordi miji cumincinu belli e finiscinu brutti, a cusì su, un ci pozzu fa nenti, su belli a mità». E certo, trasuda dolore e smarrimento, «Masculu e fìammina». Ma è pure un testo indomito, che trova poi il coraggio di aprirsi – di nuovo un ossimoro – a parentesi di autoironia e persino d’irresistibile comicità. Vedi, per quanto riguarda quest’ultimo punto, la sequenza di Saro e Marietto, che vanno a battere indossando camicioni che li fanno assomigliare sputati ai Santi Cosma e Damiano. Un altro omosessuale, Vittorio, gli scatta una fotografia, ne stampa centinaia e centinaia di copie e le distribuisce in chiesa senza che alcuno s’accorga di niente. Peppino commenta: «E mi facìa mori stu fatto ca Saro e Marietto, ricchiuni froci e finucchi cumi i chiamavinu i paesani nùasti, divintavinu i protettori d’u paisu e d’i paesani nùasti stessi, i Santissimi Cosma e Damiano». Per questa strada, si capisce, La Ruina arriva sino all’iperbole straniante. Accade, sempre per fare un esempio, quando Peppino, rimasto muto dopo che Alfredo, il grande amore della sua vita, è partito, riesce finalmente a sciogliere il groppo che ha in gola cacciando un grido altissimo nella cucina dell’albergo di Riccione in cui lavora. E tutti i clienti restano incantati «cumi quannu avìanu sintutu u gridu i Maria Callas mentre chi gridavi amami Alfredo». Con l’aggiunta, manco a dirlo, che quei tedeschi, inglesi e francesi in vacanza si lanciano in coro sull’equazione: «Peppinu come Giuseppe, Peppino come Verdi. Peppino e Giuseppe, lo stesso nome la stessa arte». La storia finisce quando finisce l’amore: quando, cioè, Alfredo viene ucciso da una bestia omofoba mentre sta appartato in macchina con Peppino. E in fondo, è anche per lui la rosa rossa che quest’ultimo depone delicatamente, come una carezza, ai piedi della lapide della madre. Inutile, adesso, sprecare parole sulla prova da antologia che Saverio La Ruina fornisce in quanto attore. Piuttosto, voglio dire che una terza poesia mi ha riportato alla mente la sequenza finale dello spettacolo, allorché Peppino – dopo uno slittamento (una sarcasticamente disperata speranza di rinascita?) nella dimensione onirica del San Pietro che attende i trapassati, e quindi pure la madre, per comunicare loro chi è ammesso e chi no in Paradiso – leva sommesso, dall’anima e dalla carne, l’epicedio della solitudine che gli cresce con l’età. Parlo dell’«Autunno» di Cardarelli: «Ora passa e declina, / in quest’autunno che incede / con lentezza indicibile, / il miglior tempo della nostra vita / e lungamente ci dice addio». Intorno il manto bianco della neve, l’estremo ossimoro rispetto a questo Sud chiuso nel nero delle sue paure. Giacché qui c’è una doppia sepoltura: quella della tomba della madre di Peppino per l’appunto sotto la neve e quella dei sentimenti di Peppino sotto l’incomprensione degli altri. Perciò lui può concludere – l’ultimo slittamento di senso – chiedendo d’essere a sua volta sepolto sotto la neve, vicino alla madre, e aggiungendo, stavolta in perfetto italiano: «Svegliatemi in un mondo più gentile».
il Giornale – Enrico Groppali –24/12/2016
Ogni scrittore, ma specialmente l’autore di teatro vive un amore e un odio assolutamente identici per il proprio personaggio-chiave. Che con infinite variazioni muore e rinasce da una pièce all’altra cambiando spesso atteggiamento, identità e persino sesso. Ma senza per questo rinunciare all’identità profonda che lo anima pur nel suo continuo trasformismo. Una caratteristica, questa, che ritroviamo nella drammaturgia di Saverio La Ruina, autore e interprete dei propri testi. Che esordì anni or sono con Dissonorata seguita da La Borto, analisi spietata della sofferenza femminile prima di concludere la triade con Italianesi. Aspetti, questi, di una condizione umana tormentata che oggi si ritrova nel ritratto di un personaggio insieme giovane e vecchio, vittima della propria omosessualità. Divorato, come dice il titolo, dal fatto di sentirsi contemporaneamente Masculu e fìammina. Nella piccola scena minimalista della tomba sepolta dalla neve dove giace la madre, Saverio finalmente confessa il suo tormento esistenziale. Fino ai ricordi delle sue esperienze amorose sempre amaramente troncate dall’insorgere beffardo di un mondo che gli si opponeva. Continuando a proclamare il doloroso inferno di questa contraddizione che lo porterà, più che ad amare un uomo, a cercare la pietas di un universo che si spalancherà ad accoglierlo come un eroe romantico, solo nell’abbraccio della morte. Che lo soffocherà sotto la neve che spiove sul sepolcro materno. Una prova tra le più intense e sorprendenti di questa stagione.
Repubblica Milano – Simona Spaventa – 17/12/2016
Lavora per sottrazione Saverio La Ruina, autore e attore di monologhi che danno voce a figure marginali e sottomesse, ma mai domate, come le donne del Sud di Dissonorata e La Borto, lavori fondamentali entrambi premiati con l’Ubu. Nel nuovo Masculu e fìammina che segna per lui l’importante debutto al Piccolo, la voce è quella di un omosessuale di mezz’età nato e vissuto nella piccola, asfissiante realtà di un paese del Pollino. La scena è di sospensione quasi onirica: un’isola bianca e ovattata, un cimitero innevato del nostro Meridione. Qui, in maglioncino nero e pantaloni a quadri, accanto alla lapide della madre siede Peppino e si sfrega le mani dal freddo, o forse dall’imbarazzo di confessarle, come mai ha fatto quando era in vita, chi è davvero. Un omosessuale o piuttosto, nella cattiveria dei compagni di scuola e dei paesani, “nu ricchione”. Peppino sa che le parole sono il demonio e possono uccidere, e finalmente può sciorinare di fronte alla madre tutta la filastrocca grottesca e tragica di nomignoli, marchi a fuoco di una provincia (e di una società) che non ammette deroghe alla norma: frocio, finocchio, pervertito, malato. La narrazione procede per tappe che si potrebbero dire prevedibili – la vergogna, il primo invaghimento e la difficile ammissione con se stessi di essere quello che si è, il grande amore, la violenza, la solitudine di un’esistenza tenuta segreta a forza – ma nei gesti misurati e precisi e nello sguardo d’autore di La Ruina tutto è fresco, vero, come detto per la prima volta. La tenerezza per la madre, donna semplice che sapeva amare cucinando cose buone e rispettare con la saggezza silenziosa di chi ha capito tutto ma non dice niente, la gioia dei ricordi di un amore gridato davanti al mare di Riccione, il dolore segreto, i sensi di colpa confluiscono in un racconto che, in un dialetto calabrese ruvido fitto di immagini e sfumature, disegna non senza ironia la partitura intima, delicata e commovente di un cuore puro.
www.rumorscena.com – Claudia Provvedini – 15/12/2016
Quelle che Saverio La Ruina racconta sono storie segrete, oscurate o oscure, di violenze sui molti, anche se è solo in scena come in “Italianesi”, o nel privato di una coppia come nel recente “Polvere”. Storie segrete che il teatro è chiamato a svelare, a mettere in luce potente ma discreta, mai gridata. In questo nuovo “Masculo e Fiammina”, Maschio e Femmina, prodotto da Scena Verticale, la storia segreta che sulla scena veniamo a scoprire è quella di un doppio amore. Il primo che Peppino, questo il nome dell’uomo, si decide a rivelare alla madre, non più in vita e dunque davanti alla tomba di lei, è quello per i maschi non per le femmine, amore che si è precisato nella sua precoce propensione omosessuale, attraverso episodi circostanziati, atti fugaci, e poi in relazioni più o meno fortunate, anche tragiche, ma sempre inesorabilmente più che felicemente orientate verso rapporti da “masculo a masculo”. E’ liberatorio il momento in cui – davanti al ritratto della madre, nel cimitero mezzo sepolto dalla neve – l’uomo dichiara la sua natura, senza più doversi nascondere o sfuggire ad attacchi e derisioni. Ma come è sicuro della sua propria natura, altrettanto lo è del fatto che la donna possa aver sempre saputo e taciuto per tutta la vita il segreto che lui non le ha mai voluto o potuto raccontare. Il riconoscere finalmente questa muta e mutua complicità permette a Peppino-Saverio la rivelazione di questo altro grande amore tra lui e la madre, mai vissuto pienamente, quasi fosse anch’esso un segreto da custodire, per pudore, per mancanza di coraggio, per paura della tenerezza, della confidenza. In dialetto calabrese (che lui con sapienza e amore per la parola rende quasi del tutto comprensibile) dall’inizio alla fine, Saverio La Ruina dialoga fittamente, amorevolmente con l’assente come fosse lì accanto, con una precisione e leggerezza di gesti (come si strofina le gambe per il freddo, come pulisce dalla neve il ritratto, come mima l’eventuale incontro tra San Pietro e il loro parroco presuntuoso), nell’alludere anche ai fatti della quotidianità, ai rapporti con parenti vari e con figure del paese di cui con affettuoso umorismo mette al corrente la madre, colmando quei tanti momenti di silenzio che ci sono stati tra loro. Il rigore del racconto pur nella sua profondità si colora di piccole battute, mai compiaciute, di descrizioni di volti e di corpi in cui la grande umanità dell’attore è davvero magistrale, rendendolo unico nel panorama italiano degli storytellers. E una volta rivelato il suo segreto di ragazzo, il figlio uomo scende davvero dentro di sé per ammettere e condividere con colei che lo ha sicuramente amato anche la sua solitudine.
www.milanoinscena.it – Maddalena Giovannelli – dicembre 2016
Il teatro di Saverio La Ruina è un susseguirsi di immagini come olii su tela: interni familiari cupi ma vivi, volti lividi scavati dalla vita, sorrisi di umanità e dolore. Il narratore-protagonista, un “Peppino” del sud come tanti, si inserisce in quel quadro poco a poco, con reticenza, come se non desiderasse fino in fondo trasformarlo in un autoritratto.
Con Masculu e Fìammina La Ruina torna alla Calabria e a quel modus narrandi che lo ha reso uno dei nomi più noti della scena italiana: il racconto si compone di un dialetto dolceaspro, del lessico minimo delle cose di tutti i giorni, tutto, viene calato in quella quotidianità piccina e accogliente. Persino la morte. Così Peppino compra uno straccio per lucidare la foto della madre che prende polvere sulla tomba e, seduto al suo fianco, le concede un coming out postumo.
Maschio e femmina può del resto essere considerato una bussola che ha guidato tutta la ricerca teatrale di La Ruina: dopo aver incarnato con delicatezza più di una figura femminile, dopo aver esplorato i rapporti di forza tra i due sessi con Polvere, ora l’autore concede spazio alla difficoltà di riconoscersi nelle definizioni binarie, a quella sensazione di trovarsi in between. Come di consueto La Ruina si accosta ai suoi personaggi con amore, senza giudizio, portandone maieuticamente alla luce meschinità e grandezze. Gli spettatori si trovano così in una condizione di vicinanza quasi affettiva con il narratore, che presto si trasforma in empatia. I temi scelti dalla compagnia Scena Verticale sono sempre capitali, ma vengono osservati di scorcio, esplorati in minore e senza proclami, presi in esame in quanto manifestazioni dell’animo umano. Qui pare però di riscontrare una certa stanchezza nel procedere, e l’educazione sentimentale di Peppino rischia a tratti di assumere un andamento elencatorio: quasi la drammaturgia avesse assorbito al suo interno la pacatezza del suo protagonista, la monotonia dei suoi giorni vuoti, tra il ricordo del suo amore perduto e la cena da preparare per gli zii. Ma La Ruina regala al suo personaggio (e agli spettatori) tutto quello che ha a sua disposizione: generosità, mestiere, grazia, capacità di compatire, cioè di soffrire insieme a un altro essere umano.
Il Giorno Milano – Diego Vincenti – 17/12/2016
Un uomo. Sulla tomba di mamma. È il momento di raccontarle tutto. Anche se lei sotto sotto già sapeva … per la prima volta al Piccolo, La Ruina torna all’assolo in dialetto (spurio). Ne esce una grande prova d’attore, nonostante il titolo non felicissimo e un testo con poche sorprese. Ma il racconto di questo anziano gay è anche pieno di grazia, di poesia. Dei chiaroscuri della lontana provincia calabra.
Gazzetta del Sud – Elisabetta Reale – 23/12/2016
Una tomba ricoperta di neve. Un piccolo cimitero di montagna che accoglie le anime dei morti ma pure quelle dei vivi, che continuano a intessere relazioni profonde, viscerali con chi non c’è più. Un figlio, una madre e una confessione sommessa, intima, delicata, che si compone parola dopo parla, ricordo dopo ricordo, come grani di un rosario. Quel cordone ombelicale tra madre e figlio mai veramente spezzato in vita, ora che la donna non c‘è più, viene tagliato dalla verità di quelle parole, prima troppo difficili da pronunciare. Non strappo doloroso, ma confessione liberatoria, rimandata forse per pudore, vergogna, per evitare l’onta del disonore alla madre. Verità che infrange l’aria. Pochi passi nello spazio e infiniti nella memoria della vita di un uomo, oramai adulto, capace di raccontare alla madre di essere omosessuale, “masculu e fìammina insieme” come diceva la donna. […] La Ruina torna a mostrarsi solo sulla scena, alcuni gesti ne contraddistinguono la figura, come le mani continuamente sfregate per allontanare il freddo e recuperare il calore del ricordo. Anche stavolta ambienta la storia in un luogo marginale, una di quelle periferie, chiuse e bigotte, al nord come al sud, dove, tra pregiudizi e preconcetti, su certi argomenti, come l’omosessualità, vige ancora la regola del silenzio. […] Le coreografie di gesti di Peppino, il protagonista, e dei personaggi maschili e femminili da lui rievocati, in una sorta di racconto di formazione senza soste, disegnano nell’aria infinite immagini, ricordi, luoghi e situazioni. La forza autoriale di La Ruina è racchiusa nella semplicità di gesti e movimenti, nella profondità dei ricordi, nella delicatezza e intensità insieme per descrivere l’animo umano. Scende nel profondo, La Ruina, mescola sentimenti e toni: la consapevolezza di non essere riuscito a dire la verità quando la madre era viva, una pesata e divertita ironia, unica arma per vivere l’essere omosessuale in una società che stigmatizza chi è diverso – ma in fondo tutti siamo diversi, afferma Peppino -, e poi la sofferenza d’una difficile accettazione di sé, “masculu a cui piaciunu i masculi”, il dolore lacerante della perdita di un amore, quello profondo, struggente, costante dell’essere messo ai margini, bollato come “ricchione”. La madre è sempre lì, in vita così come nella morte, compagna fedele, consapevole di una verità non rivelata, ed è proprio in lei che Peppino cerca accoglimento e un rifugio: la tomba diventa ventre dove lasciarsi riposare in attesa di un “mondo più gentile”, in un finale lieve, onirico e surreale. Abile affabulatore, La Ruina intreccia fili e memoria, storie e personaggi d’una vita intera, abbandonandosi nella descrizione di tanti, troppi ricordi, senza mai perdere la misura, toccando sempre le corde più profonde e intime dell’animo umano.
www.milanoteatri.it – Massimiliano Coralli – 17/12/2016
Quando pensiamo alla Calabria, la prima immagine che ci viene in mente non è certo la neve. Eppure è lì che si dirige, a passi lentissimi, il protagonista di questo racconto. Un tappeto di neve, uno spazio piccolissimo e circoscritto all’interno del quale c’è spazio solo per una lapide. E’ un cimitero, ed ecco quindi che il freddo ambientale si unisce al gelo dell’anima, nel luogo per eccellenza in cui dominano il dolore e il silenzio. Ma non è di silenzio che l’uomo ha bisogno. Di fronte a quella lapide, che cela il corpo di una madre, l’uomo trova finalmente il coraggio, fuori tempo massimo, di rivelare il suo più grande segreto: sono un masculo a cui piacciono i masculi. Una rivelazione forse non indispensabile, visto che la donna, quand’era ancora in vita, lo aveva già intuito, senza giudicare. Ma necessaria per l’uomo, per ritrovare un definitivo ricongiungimento con la madre, eliminando il rammarico di non essere mai stato capace, prima che morisse, di farsi conoscere davvero. Inizia così il racconto di una vita ai margini, nel bellissimo Masculu e Fiammina, presentato in questi giorni al Piccolo Teatro Melato di Milano da Saverio La Ruina, tra i più premiati artisti della scena italiana. La Ruina, appoggiandosi solo alla forza delle sue parole, sovverte i canoni e le aspettative, sin dalla costruzione di quel paesaggio così insolito, ovattato, freddo e ci racconta una storia scomoda e durissima che inizia dall’infanzia e arriva fino all’età adulta. Non un romanzo di formazione né un tradizionale flusso di coscienza bensì una confessione privata e intima. Ci sentiamo quasi fuori posto, noi spettatori, seduti comodamente sulle nostre poltrone, nell’assistere alle poche gioie e alle tante sofferenze di quell’uomo che ha scoperto subito la sua attrazione verso le persone del suo stesso sesso. Non si censura, La Ruina, mai, e non risparmia dettagli apparentemente fastidiosi, come la masturbazione di un ragazzino che pensa agli uomini o la descrizione dell’omicidio per omofobia del suo compagno. Ma riesce a farlo con una dolcezza insospettabile, pur senza abbandonare mai quel dialetto calabrese che, a sentirlo da queste parti, in piena pianura padana, suona aspro e roccioso. Non alza mai i toni, riuscendo nell’impresa di renderci partecipi di quell’intimità, creando con il pubblico un’empatia totale. E di colpo, l’enorme teatro diventa una piccola stanza, fredda e notturna, con le luci abbassate, in cui si parla a bassa voce per non disturbare i vicini. Improvvisamente non siamo più sulle nostre poltrone ma siamo lì con lui, in quel cerchio di neve, seduti sulla lapide, ad ascoltarlo e a farci guardare negli occhi. Ennesima bellissima prova per La Ruina, un racconto delicato e toccante che raccoglie meritatissimi applausi e lacrime di commozione.
www.linkiesta.it – Giulia Valsecchi – 21/12/2016
C’è un tempo in cui solo le confessioni ricongiungono il passato al presente, frenano la corrente delle occupazioni e orientano le parole sulla verità mai pronunciata. È un tempo che scorda l’oscillazione delle apparenze, la maschera che mostra e nasconde. Una confessione può allora trasformare un dialogo in un monologo che non richiede risposta, perché la voce salva in sé nostalgie, immagini e, soprattutto, memorie. Così, quando Peppino raggiunge la tomba della madre su una specie di isola bianca di neve, inizia a raccontarle quel che è stato della sua vita dal principio, come in un romanzo di formazione sopraffatto dal soliloquio. La foto della donna è coperta di ghiaccio e il figlio si appresta a lucidarla posando accanto al sepolcro una rosa rossa. Di questo appuntamento che, se non fosse per la lingua, l’idioma calabrese, e per le pose mai casuali, assomiglierebbe a ogni altra raffigurazione dolente del dialogo tra un figlio e una madre scomparsa, Saverio La Ruina intaglia un frammento che trattiene il dolore di certe ricorrenze e usanze, come delle levità più pensose. Nello sguardo all’indietro di Peppino c’è tutta l’enfasi degli anni giovanili, dei brividi sulla spiaggia quando, ancora bambino, viene sfiorato da un coetaneo. Da allora si è insinuato un dubbio, un terrore misto alle infatuazioni e alle offese urlate da tutto il paese contro il primo abitante che non fa misteri delle proprie scelte sessuali. Il suo è un caso che verrà a ripetersi tristemente e in maniera amplificata dal Sud al Nord dell’Italia. Il racconto di Peppino passa infatti attraverso la paura dell’etichetta di “diverso” che gli anni e i luoghi visitati non hanno emendato, ma solo costretto a rassegnazione. Il rispetto degli orari di pranzi e cene con chi resta della famiglia continua a coprire ciò che non è mai venuto a galla esplicitamente, se non quando è stato costretto a riconoscere la propria verità davanti a un amico che, come lui, è di quei “masculi” cui piacciono altri “masculi”. Sono argomenti che disturbano e annoiano, motivi di discriminazioni che non fanno notizia se non nell’abuso e nella morte indotta. La confessione di un figlio alla madre mostra la resa consapevole a una vita di silenzi e fughe dalle persecuzioni verbali e fisiche. Una vita che Peppino ha trascorso a imparare il mestiere di barista e ad affidarsi, sempre in clandestinità, all’unico compagno che gli abbia dichiarato amore, diverso sì da chi pratica amplessi meccanici. L’isola di neve da cui fa capolino la tomba su cui si riversano parole, canzoni e volti di un tempo è un traguardo sciagurato e protetto di ricordi che si ripiegano su stessi mentre riferiscono di Alfredo, il compagno amato e ucciso dalla violenza dei cosiddetti “normali”. Eppure, non mancano stacchi leggeri in cui Peppino si figura nei panni di San Pietro e domanda alla madre se abbia già incontrato Gesù e Maria. Sono domande che alleviano il peso degli incubi notturni, mentre la luce cala su quello che è un viaggio interiore svelato da La Ruina con la misura lirica e atroce che gli appartiene esemplarmente. Il dialetto calabrese è la prima confidenza che mette a nudo le brutture del linguaggio canonizzato, quello che quasi mai è gentile, che non sa come definire chi è “masculu e fìammina” allo stesso tempo, che rompe le teste con sbarre di ferro o mortifica l’unione tra due uomini, sempre e soltanto due “ricchioni” agli occhi dei più. La libertà che si prende Peppino di stare nudo davanti al mare su una spiaggia deserta è la stessa che dal passato sopravviene alle parole affidate al ritratto materno. Ne La camera chiara Barthes descrive non a caso la fotografia come Quadro Vivente, teatro primitivo che inscena la storia: narrarsi si fa allora sempre più necessario, è un grido sfacciato e una carezza che gli occhi assenti dalla realtà fanno rivelazione segreta. Così, le raccomandazioni della madre che sapeva senza dire né chiedere sono un calco in cui Peppino si rannicchia abbandonandosi e lasciando che il tempo, come nella confessione, sia sospeso in attesa di un mondo più gentile.