Il mio Teatro per Roma
La riflessione del direttore Luca De Fusco sul nuovo corso della Fondazione pubblicata dal Messaggero in data 29 maggio.
Un personaggio de “L’insostenibile leggerezza dell’essere”, la pittrice Sabina, racconta che quando viveva a Praga le veniva chiesto di essere una pittrice comunista e anticapitalista; quando si trasferì in Occidente le venne chiesto di essere una pittrice anticomunista. Lei rispondeva in entrambe le situazioni di voler essere solo una pittrice. Kundera aveva dovuto sopportare l’oppressione del regime sovietico e avrebbe quindi avuto tutte le motivazioni per essere un artista schierato, cosa che per tutta la vita rifiutò.
Nel nostro Paese l’atteggiamento verso la politica e la cultura hanno invece molto spesso un carattere da tifo calcistico. Ogni argomento viene affrontato non nel suo vero contenuto ma in modo strumentale rispetto alle posizioni politiche.
Penso che un teatro stabile abbia molte motivazioni per distinguersi da questo atteggiamento. Innanzitutto, credo che almeno gli intellettuali dovrebbero sforzarsi di esercitare una intelligenza critica e giudicare di volta in volta ogni questione per quello che effettivamente è, e non per il retroterra che la contraddistingue. Se questo è giusto, a mio avviso, per chiunque eserciti un ruolo culturale nella società, è ancora più giusto per una istituzione culturale. Il Teatro di Roma, infatti, dovrebbe essere il teatro di tutti. Un teatro in cui la maggior parte dei cittadini romani possa riconoscersi. Oggi dovrebbe essere più facile esercitare un ruolo di terzietà, visto che le grandi ideologie sono cadute ed è quindi in realtà abbastanza difficile etichettare una regia come di destra o di sinistra. In realtà non succede così, anzi più deboli sono le ideologie e più si afferma il carattere da tifo, tribale, delle divisioni nella società e specificatamente nella comunità culturale.
Quasi che l’indebolimento delle “grandi narrazioni” ideologiche di un tempo sia stato sostituito non dalla sostanza delle differenze, ma da una sorta di inconsistenza e da una fragilità di comportamenti. È facile spiegare perché: se la mia squadra ha sempre ragione e la squadra avversaria ha sempre torto non c’è bisogno di studiare, di capire, di approfondire. In un’epoca basata sulla velocità il pregiudizio aiuta: si fa più presto.
Nei pochi mesi in cui ho organizzato il cartellone annunciato ieri, mi sono mosso secondo il dettato di Kundera, ho cercato dei “teatranti”, per usare una parola che non ha nulla di diminutivo, che fossero semplicemente degli “artisti”. Questo non vale tanto nei contenuti (chi può dire se il Re Lear di Lavia sarà di destra o di sinistra?) quanto nella divisione per tribù. E a questa credo che nessuno, davanti al cartellone della stagione che ho presentato, possa e voglia ridurre le scelte che io ho compiuto, ma più complessivamente che il Teatro di Roma ha compiuto, perché un teatro è una macchina complessa e un lavoro collettivo.
Parlo di scelte che non sono operazioni fatte con il bilancino delle espressioni politico culturali, ma di scelte insieme forti e aperte a tutti gli stimoli, che hanno però come discrimine quello della qualità: sia quella di grandi interpreti come Orsini, Branciaroli, Servillo o Barbareschi sia quella di grandi registi come Lavia, Popolizio, Binasco, Longhi o Malosti.
Questo del tifo calcistico è un vecchio vizio della cultura italiana. Basta leggere il libro di Francesco Piccolo, “La bella confusione”, per ricordarsi che anni addietro bastava amare un film di Federico Fellini per farsi etichettare come conservatore e di destra.
Sono cose che oggi fanno sorridere, ma non credo che Giuseppe Tomasi di Lampedusa abbia sorriso vedendosi rifiutare la pubblicazione del “Gattopardo” (bocciato da Elio Vittorini) che uscì soltanto dopo la sua morte. Dato che il protagonista era un Principe, il romanzo fu etichettato come aristocratico e reazionario.
C’è da sperare che queste divisioni prettamente novecentesche siano finite con quel secolo e che quello che stiamo vivendo sia più laico e aperto a una selezione che sia improntata soltanto alla qualità.