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di Katia Ippaso
Un pavimento d'acqua. Palude, acquitrinio, lago di luce mercuriale. Coperto, qualche volta, da una lastra di ghiaccio. Bianco, in ogni caso, trasparente, dannato. Esposto alla sua essenza. Da sotto, emergono uno alla volta fossili di un passato preistorico. Sono pezzi di opere precedenti o di cose che nessuno sapeva esistessero, lì in fondo, dove le acque sono profonde. Sono reperti incontaminati di un fondale marino che riappaiono, per incantesimo e incantamento, sotto la superficie, smottati dai movimenti degli attori che sopra ci fanno rumore: sono pezzi belli, levigati, senza labbra, che, mentre riafforano, chiedono di sparire del tutto, di morire, per risorgere in una nuova forma. Io il teatro di Roberto Latini lo vedo così. Come una diseguale distesa d'acqua ora più spessa ora più limpida - a seconda della forma con cui l'inconscio si produce - sopra cui il demiurgo compie, da solo o con la sua compagnia, alcuni passi di danza, riti di possessione fonetica, cerimonie d'amore e preghiere rivolte ai morti e ai non ancora morti. Anche qui ci sono fossili da interrogare. Invenzioni immaginifiche. Il primo segno è una fotografia. Arriva via email. E' il volto di un vecchio, la camicia bianca, la bocca. Nelle nostre conversazioni continuamente interrotte che portiamo avanti da anni, i dettagli sono importanti. E' per questo che Roberto mi manda solo quel particolare visivo che poi confluirà nella locandina di questo suo ultimo spettacolo, "Ubu Roi". Da lì parte un altro frammento di dialogo su un processo mitopoietico che non si potrà mai esaurire, perché va a pescare molto lontano, là dove fa freddo e si è soli e proprio perché si ha il coraggio di spingersi in quella landa desolata si incontrano gli spettri del grande teatro. Poi arrivano le prove. E altre immagini si sedimentano. Nel momento in cui leggerete questa breve conversazione, altre ancora se ne saranno aggiunte. E altre se ne aggiungeranno sempre, perché nella visione del teatro che ha Latini la fatalità del "possibile" non si dà nello spazio antecedente (la poetica) né nell'interpretazione (la critica), ma nel mezzo, là dove ci siete solo voi che adesso vi preparate a vedere lo spettacolo e a lasciare che qualcosa di meraviglioso "accada".
Non è la prima volta che usi travestimenti e camuffamenti. In questo caso, però scegli di far indossare agli attori delle maschere tutte uguali che i volti modificano fino ad "abitarle" in fisionomie tutte diverse. Perché?
Perchè la maschera in teatro ha il potere ancestrale di stabilire il confine del sembra rispetto alle complicazioni dell' essere". E' materia effettivamente amletica, ma in grado di ripercorrere in un argomento solo la storia del teatro. Ci sono alcune regole che valgono sempre, altre che si stabiliscono di volta in volta. Mi sono avvicinato a "Ubu Roi" con la necessità fondamentale di suggerire anziché dichiarare e le maschere scelte mi permettono di aprire altri livelli possibili tra i personaggi e le loro stesse proiezioni, tra le intenzioni e le invenzioni possibili.
Il palcoscenico si popola di personaggi potenziali, potenze più che presenze e questo moltiplica in maniera preziosa l'occasione per la fantasia che Jarry sembra volerci suggerire.
Dal fondo della notte di Jarry appaiono alcuni versi di Shakespeare. Chi ha chiamato prima l'altro?
Ho ricostruito una risposta possibile a questa domanda convincendomi che, dal fondo della mia notte, Jarry mi è apparso in sogno per venirmi a raccontare che Shakespeare è apparso in sogno a lui. Jarry mi ha detto che non era proprio Shakespeare, eppure proprio lui, così non mi sono preoccupato troppo del fatto che a me quel Jarry non sembrava proprio Jarry, eppure invece forse sì. Mi ha raccontato che merdra! è la prima cosa che gli è venuta di dire, svegliandosi. Allora, svegliandomi, ho provato a dire merdra! anch'io e gli ho creduto e ho cercato di ricordarmi come proseguire. Mi sono appuntato quanto Shakespeare avevo a memoria e l'ho aggiunto a Ubu.
Evochi anche Pinocchio, frequentato con "Noosfera Lucignolo" e rimasto appeso alla fine di una catena/cappio, come scheletro.
Pinocchio m'è diventato irrinunciabile quando ho avuto bisogno di guardare l' "Ubu Roi" da vicino, da dentro, da appena fuori e poi dal più distante possibile. Ho avuto bisogno di uno sguardo appropriato, di occhi adatti e quelli di Pinocchio hanno visto per me, insieme a me, le possibilità di misurarsi con le infinibile varietà di situazioni e personaggi. Non credo sia importante distinguere tra vero e verosimile, piuttosto stabilire la grammatica capace di raccontare la sorpresa di questo incontro.
Poi, Pinocchio e Ubu Roi sono praticamente coetanei.
Il sentimento di apocalisse che pulsava in "Noosfera Lucignolo" e "Noosfera Titanic" (il primo in un risvolto più grottesco, con l'occhio rivolto a questa piccola barbarica Italia, l'altro in una chiave più siderale, liturgica), sembrerebbe essersi depositato anche sul tappeto sonoro/visivo di "Ubu Roi", ma con una nota diversa: di rovinosa, fatale punizione...
"Ubu Roi" è in effetti materiale dell'altro mondo. Di un altro mondo possibile.
Un mondo senza apocalisse o con la data di scadenza bene in evidenza.
Ci somiglia, come tutto ciò a cui ci riferiamo. Da Artaud a Carmelo Bene.
Nel tuo precedente "Ubu", ti eri incatenato da solo alla tua potente armatura (usando anche il dispositivo della motion capture) e da lì nominavi tutte le figure del dramma patafisico di Jarry. Dopo tanti anni, con "Ubu Roi" le figure di questo naufragio sono uscite fuori di te...
Stavolta a essere incatenato è Pinocchio, spettatore e interlocutore di Ubu.
Il teatrino degli Ubu è un'immaginazione, come lo stesso Pinocchio, come Shakespeare e anche Jarry. I personaggi abitano nessun mondo e senza la necessità di dire nulla di particolare. Non c'è niente di originale, supposto o preteso, se non la potenza della fantasia.
In qualche momento dello spettacolo, il ritmo esplode e si scatena in una specie di battello ebbro alla Kusturica....
I cinque atti di Jarry sono effettivamente così. C'è una forza latente data dalle possibili interpretazioni di una condizione che non ha pretesa o necessità di un vero pretesto. Nel precedente "Ubu Incatenato", il simbolo che avevamo assunto era una lavatrice. Noi eravamo in giro, come nel cestello della spirale jarryana. Nell' "Ubu Roi", invece, ci siamo ritrovati non ad essere inglobati ma ad essere espulsi, scaraventati su una specie di pianeta in movimento eppure immobile e quasi condannato alla reiterazione della propria condizione.
Presenze aurorali e notturne. Canti del gallo. Suoni sottili e improvvise danze dionisiache. Su quali suggestioni hai lavorato in questo caso insieme a Gianluca Misiti?
Per ammettere mondi possibili abbiamo avuto bisogno di non definirne uno particolarmente. Servivano uno spazio e un tempo fuori da spazio e tempo.
La scena, i costumi, le luci e i suoni, sono materia che non può chiudersi per essere portata dentro una confezione. Ogni elemento deve essere a disposizione e nella disponibilità. Abbiamo lavorato tutti immaginando di buttare una canna da pesca da dove eravamo e di non sapere cosa potesse effettivamente venire fuori dal mare di Ubu.Ogni pescatore sa che la pazienza non è un dono, ma la condizione, e che non c'è sapienza in grado di trasformare con certezza l'esca in pesce. Abbiamo cominciato da lì, dall'emozione di quando si tira su la canna e si controlla se c'è qualcosa, e cosa, attaccata all'amo.
Chi è Ubu Roi?
E' uno che reclama fantasia.
E chi è Roberto Latini, oggi, dopo che si è fatto attraversare da tutte queste allarmate, disincarnate presenze - Jarry, Skakespeare, Artaud, Carmelo Bene, Leo de Berardinis, Pinocchio, Lucignolo, i propri stessi versi, gli attori convocati come angeli alla tua tavola?
Uno che ha la fantasia di reclamare.
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