Conversazione con L. Ronconi
di Gianfranco Capitta
*estratti da Quattro pezzi non facili, documentazione del Laboratorio diretto da Luca Ronconi con gli allievi dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico”, Santa Cristina, 23 agosto/12 settembre 2010
La scuola ha sempre fatto parte del teatro secondo Luca Ronconi, ne è sempre stato un aspetto complementare, o anche indispensabile.
È vero: la prima volta che sono andato a tenere un corso all’Accademia (espressione che oggi mi fa sorridere) avevo 35 anni: una storia lunga e parallela ai miei spettacoli.
Quella stessa Accademia “Silvio d’Amico”, del resto, Ronconi l’aveva frequentata da ragazzo, come allievo attore.
Ci sono entrato proprio da ragazzo, non avevo ancora 18 anni. All’epoca c’era ancora Silvio d’Amico, e poi Orazio Costa, e Sergio Tofano, che oggi non ci sono più. Era una scuola molto diversa da come poi si sarebbe sviluppata nei decenni successivi.
Il mestiere di attore è uno di quelli che ha bisogno di essere trasmesso, e si deve apprendere da qualcuno che lo possieda, se si vuole praticarlo.
Che si debba apprendere, direi di sì, molto spesso a proprio rischio e pericolo. Quanto al trasmettere, sono contento che tu lo dica perché lo penso anch’io, ma ci sono molti altri che non condividono quest’affermazione.
All’Accademia Luca Ronconi si è formato ed è nato come attore: possedeva sicuramente un suo talento di interprete, e solo molti anni dopo è divenuto regista.
Neanche tantissimi: dopo nove o dieci anni. Mentre quell’esperienza d’attore si è conclusa ormai da molto tempo, pur essendo stata piuttosto intensa, almeno all’inizio. Poi io stesso ho rallentato, perché non mi sentivo troppo a mio agio sul palcoscenico. Non so quale sia stato il motivo, ma forse non mi piaceva e non mi trovavo bene nel teatro che si faceva allora. O forse c’è qualcosa nel mio carattere che rifugge dall’eccessiva esposizione sul palcoscenico. Non so bene, ma non sono stato neppure a chiedermi troppo il perché.
Come regista, invece, si possono creare interi mondi…
Come regista m’interessa molto il lavoro con gli attori. Anche quando facevo io l’attore (e qualche volta l’ho fatto in maniera non “spregevole”), ero sempre interessato ai problemi di recitazione o di interpretazione, o all’approfondimento del testo, o alla ricognizione di quelle che possono essere le ragioni del carattere del personaggio, piuttosto che non all’effetto di tutto ciò sul pubblico. Forse è questo che mi ha fatto trovare più a mio agio a lavorare con un “pubblico” di attori, piuttosto che salire io sul palcoscenico e mostrarmi al pubblico.
È evidente, a questo punto, che per un regista è importante essere nato come attore.
Non è detto, perché ci sono grandissimi registi che non hanno mai fatto una vera pratica d’attore; però è vero che sperimentare sulla mia pelle quali possano essere i meccanismi, le difficoltà, le resistenze, i piaceri e i dispiaceri dell’essere in scena, mi è utile per lavorare con la maggior parte degli attori.
Che genere di rapporto si è instaurato con gli allievi dell’Accademia con i quali stai lavorando?
A loro ho dichiarato subito di non possedere né una didattica né un metodo. Cerco di rapportarmi singolarmente con ciascuno di loro, perché ognuno è un individuo a sé.
Avere un metodo presuppone che chi lo applica bene ottenga risultati eccellenti, in caso contrario sarebbe un metodo “deficitario”. Ma questo non succede mai, con nessun metodo. Cerco, piuttosto, di capire il più rapidamente possibile quali sono le potenzialità, e anche le resistenze degli allievi, e di aiutarli a liberarsi gradualmente, senza troppi schemi, pregiudizi, preconcetti ideologici o di gusto. Secondo quelle che sono le loro effettive potenzialità.
La scuola in generale è cambiata radicalmente in questi anni. Sono cambiati anche i giovani che vogliono imparare a diventare attori?
Oggi la definizione di attore è assolutamente più approssimativa o estensiva di quanto non fosse in passato. Oggi esistono tante forme diversificate di teatro (ed è bene che esistano), che richiedono ciascuna tecniche e approcci diversi. Tutti sono attori: è attore chi fa una fiction televisiva, quasi totalmente priva di linguaggio parlato e dove tutto quanto è azione, così come è attore uno che racconta qualche cosa. Sono tipologie del tutto diverse: rispetto a qualche decennio fa, senza correre il rischio della specializzazione, è assolutamente necessario che un attore sappia a quale tipo di teatro si vuole indirizzare, e quanto sia adatto a quel determinato indirizzo.
A proposito dell’evoluzione di quest’ultimo secolo, si sente dire ogni tanto, soprattutto tra le generazioni teatrali più giovani, che “la regia è morta”. Anche se è un mestiere recente, una “invenzione” sviluppatasi in poco più di cent’anni.
Se è morta, io dovrei essere un superstite. Quella del regista non è una figura, ma una pratica. Se uno riesce a farsela da solo, benissimo. Se non ci riesce, o ci riesce male, è meglio che abbia qualcuno che lo guidi. L’idea che sicuramente è tramontata è quella del regista demiurgo, ma è un’idea che non mi è mai appartenuta. Il teatro, poi, è fatto di tante cose:
di attori, di spazi, di testi; i testi possono essere opere letterarie di uno scrittore, e possono essere copioni scritti da un commediografo. E tutte queste cose hanno certamente bisogno di una serie di mediazioni…