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Rosso

10 – 15 maggio 2016

di John Logan
regia, scene e costumi Francesco Frongia

Lo spettacolo

La pièce è ispirata alla biografia del pittore americano Mark Rothko, maestro dell’espressionismo astratto, che alla fine degli anni Cinquanta ottenne la più ricca commissione della storia dell’arte moderna, una serie di murali per il ristorante Four Season di New York.  Puntando i riflettori proprio su quel periodo, Rosso mette in scena lo scontro tra generazioni di artisti: tra Rothko, un uomo maturo che fa i conti con se stesso, e Ken, giovane allievo alla ricerca di un “padre”. «Il figlio deve scacciare il padre. Rispettarlo, certo, ma anche ucciderlo» – sostiene Rothko ripercorrendo la propria storia – «Abbiamo distrutto il cubismo, io e de Kooning e Barnett Newman». Dopo due anni di lavoro febbrile per realizzare i dipinti murali, sarà inevitabilmente Ken a mettere in discussione il maestro in uno scontro teso e feroce che lo spinge alla scelta radicale (ma intimamente coerente) di disattendere gli impegni con il Four Season.

Note sull’incarico per i Seagram Murals – Nelle parole di Mark Rothko

“Nella primavera del 1958 ricevetti una telefonata. Si trattava dell’incarico di riempire uno spazio pubblico che sarebbe stato utilizzato come sala pubblica privata. La mia unica condizione era che si trattasse di uno spazio circoscritto. Infatti, ho sempre pensato che se mi avessero concesso uno spazio privato circoscritto che avrei potuto circondare con le mie opere, questa sarebbe stata la realizzazione del mio sogno di sempre. La questione della sala da pranzo mi aveva sempre attratto, e subito mi venne in mente l’immagine del refettorio nella chiesa di San Marco con gli affreschi del Beato Angelico.
Il mio primo istinto fu di generica sfiducia nei confronti di una simile proposta. Perciò l’articolo uno del contratto stabiliva che nel caso i committenti avessero espresso il desiderio di liberarsi dei quadri, questi mi sarebbero stati rivenduti. C’era la speranza che dipingessi qualcosa che non avrebbero tollerato. Un desiderio che incarnava l’orrore per le grandi fauci, per quella bocca che poteva disintegrare con i propri denti qualsiasi cosa le venisse offerta. Nulla poteva più traumatizzare o ripugnare. Ma sulla base dell’estetica tutto poteva essere consumato.
Ciò che era ovvio era il desiderio in me di intraprendere il progetto di uno spazio contenuto e totalmente mio. I primi dipinti li realizzai nel mio vecchio stile. Presto però scoprii che le mie vecchie immagini non servivano allo scopo. Divenne chiaro che per essere un uomo pubblico occorreva un atteggiamento differente. Alcuni quadri non sono fatti per un luogo particolare. Ma di fronte a uno spazio specifico, a una permanenza e all’eterogeneità di una situazione pubblica, avrei dovuto sviluppare una nuova immagine.
Seguirono una serie di fasi in cui ciascun passaggio venne ulteriormente ridotto finché, all’ultimo, il grado di riduzione fu accettabile. In un’epoca che non ha trovato miti né simboli per esprimersi, l’immagine finale doveva essere libera da connotazioni interne. Il problema era quello d’inventare un’immagine che fosse un tutto estraneo alle immagini stesse. In breve, di fare un luogo, piuttosto che delle vestigia pittoriche…”
“Fare in modo che l’osservatore abbia la sensazione di trovarsi intrappolato in una stanza in cui tutte le porte e le finestre sono murate, e che l’unica cosa che gli resti da fare è sbattere in eterno la testa contro i muri…”

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