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Tito/Giulio Cesare

7 – 12 maggio 2019

2 riscritture originali da Shakespeare
di Michele Santeramo/Fabrizio Sinisi
dirette da Gabriele Russo/Andrea De Rosa

 

Lo spettacolo

Tito Giulio Cesare nascono nell’ambito del Glob(e)al Shakespeare, il progetto presentato a giugno e a ottobre 2017 per il quale Gabriele Russo, che l’ha ideato, si è aggiudicato il Premio dell’Associazione Nazionale Critici 2017 come migliore progetto speciale.

Tito è un uomo alla ricerca della normalità che vorrebbe ascoltare musica, leggere un libro e starsene in pantofole, perchè ne ha viste troppe in guerra e ora vuole solo trovare la sua pace; prima, però deve indicare il suo successore. I congiurati Bruto, Cassio e Casca, dopo aver ucciso Cesare cercano le ragioni profonde del loro omicidio e ne sono al tempo stesso travolti; Antonio, intanto si chiede: chi o cosa può venire dopo Cesare?
Così Tito Andronico Giulio Cesare di Shakespeare riscritti e diretti l’uno da Michele Santeramo/Gabriele Russo e l’altro da Fabrizio Sinisi/Andrea De Rosa sono due atti di un unico spettacolo. Il primo atto ci racconta, con un tono lieve ed elegante, un Tito profondamente umanocapace di strapparci anche un sorriso, il seconda presenta un Giulio Cesare dall’atmosfera metallica, potente e decisamente contemporaneo; insieme affermano l’universalità dell’opera di Shakespeare perché riescono a rimanervi fedeli pur sottolineandone la stringente attualità. Tito/Giulio Cesare è un’unica intensa, originale e beffarda riflessione sulle “conseguenze del potere”.

Note di Andrea De Rosa

È legittimo uccidere il Tiranno?

Ho deciso di affrontare il Giulio Cesare di Shakespeare concentrandomi su questa antica questione filosofica, privilegiando esclusivamente l’aspetto politico del testo; ho chiesto a Fabrizio Sinisi di rileggere l’originale in quest’ottica e di riscriverlo alla luce di questa specifica lente d’ingrandimento, trascurando i mille risvolti che, come sempre nei testi di Shakespeare, concorrono ad alimentare una vicenda piena di implicazioni dalla forte densità emotiva e psicologica, ma puntando invece sull’elemento universale della questione.

Varcando il Rubicone e marciando in armi verso Roma, Cesare ha oltraggiato la Repubblica, ha compiuto un atto violento e spregiudicato, ha aggredito la struttura democratica di Roma per farsene unico interprete. Dopo quasi cinquecento anni dalla cacciata dell’ultimo Re (Tarquinio il superbo), un uomo solo si ritrova ad accentrare nella propria persona un immenso potere (Cesare aveva strappato al Senato la nomina a dittatore, ma per la prima volta nella storia di questa carica, che veniva concessa solo per brevi periodi e soprattutto nei momenti di crisi, egli l’aveva ottenuta in modo perpetuo, cioè a vita).

Convinti di agire per il bene dello stato, i congiurati – Bruto, Cassio e Casca – decidono di rimuovere il problema: uccidere l’uomo che si è trasformato, davanti ai loro occhi, in Tiranno. Ma si accorgono presto che l’identificazione tra Cesare e Roma è ormai profonda e irreversibile. Prendendo lo Stato, Cesare ha impersonato lo Stato, lo ha plasmato e modificato strutturalmente, tanto che, anche dopo il suo assassinio, niente potrà essere più lo stesso. Il corpo che essi volevano salvare – la Repubblica – subirà invece una micidiale mutilazione: per rimuovere il male, essi devono infliggere un colpo mortale proprio al corpo che intendevano sanare. Uccidere il Tiranno può non bastare se non se ne può uccidere il potere e spesso il potere del Tiranno risiede proprio nella comunità che lo subisce, che arriva talvolta a proteggerne e tutelarne il dominio. Il rapporto fra popolo e Tiranno è un rapporto ambiguo, amoroso e violento, che ricorda molto, nel profondo, quello tra padri e figli (“Ma sei forse meno schiavo se sei amato dal tuo padrone?” scriveva Pascal in uno dei suoi Pensieri).

La storia del Novecento è stata attraversata da molte infami dittature e altre sembrano affacciarsi in questo oscuro inizio del nuovo millennio. Sembra esserci un destino inesorabile che ci riporta continuamente a dover fare i conti con questo spettro, brutale e contraddittorio, che da sempre si agita nella storia umana: si vuole, si può, si deve uccidere il Tiranno?

 

Note di Gabriele Russo

“Come fanno le persone normali a sopportare senza vendicarsi?”

Non è un caso che Tito Andronico, la prima tragedia scritta da Shakespeare, sia la sua opera più cruenta, sanguinaria e violenta, ciò è certamente dovuto oltre alla giovane età dell’autore ma anche alla sua consapevolezza che questi ingredienti, all’epoca, fossero molto attraenti per il pubblico, realizzando importanti incassi al botteghino. È evidente che Shakespeare, in particolare all’inizio della sua vita teatrale badasse molto a questo aspetto, pena il suo futuro in palcoscenico. A quanto pare le cose oggi come allora non sono tanto cambiate. Potremmo dire che Tito Andronico sia l’equivalente di un film splatter dei nostri tempi, il linguaggio e la drammaturgia sono chiaramente più alti ma l’obbiettivo di fondo era lo stesso.

Tuttavia, poiché sempre di Shakespeare si sta parlando, è stato ancora più interessante lavorare ad un processo di scarnificazione dell’opera per scoprire cosa altro ci fosse dentro questa storia.

E’ così che nella ri\scrittura di Michele Santeramo, smussando il carattere epico dell’opera e abbandonandone quello tragico per trasferirlo nel registro del drammatico, nel quale il pubblico di oggi ha più strumenti per riconoscersi, Tito Andronico è diventato più semplicemente Tito, l’antieroe Tito. Tito padre di famiglia, di figli immaturi ed acerbi, Tito oberato dal peso della responsabilità. Tito uomo. Un uomo alla ricerca della normalità. Vorrebbe ascoltare musica, leggere un libro, starsene in pantofole. Tito alla ricerca della pace.  Ma c’è pace se la guerra è altrove? Ed è in questa pace apparente, fra le mura casalinghe che il sangue continua a scorrere mentre si consuma la vendetta dei suoi vecchi nemici. A questo punto il Tito di Shakespeare si ribella a quello di Santeramo, la normalità desiderata diventa la causa della tragedia che si fa di nuovo viva sul finale, quando Tito dovrà, suo malgrado, vendicarsi e rispondere al ruolo cui è destinato.

Nel frattempo però Lavinia, la figlia di Tito a cui Demetrio e Chirone hanno tagliato la lingua, nella riscrittura di Santeramo si ribella a quella di Shakespeare che la vuole muta e parla, si confessa, si svuota ed infine contesta la sua condizione di attrice costretta a recitare una parte che non le piace.

Ed è questa un’altra delle chiavi di questa messinscena, ovvero la consapevolezza sempre chiara e presente negli attori di star recitando una tragedia. Non con un esplicito dentro\fuori ma in un luogo più ambiguo e sottile in cui il piano della realtà e della finzione si intrecciano e confondono continuamente.

A volte sono i personaggi a parlare fra di loro ma molto spesso sono gli attori che parlano fra di loro attraverso le parole dei personaggi.

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