Una creazione che, oltre ad essere la testimonianza di un giovane autore già alla ribalta della scena internazionale, offre la possibilità di riflettere sull’ossessione tutta contemporanea dell’accumulo, dell’archivio, dell’elenco di cose e fatti che amplifica a dismisura la percezione del corpo come custode della memoria.
In Avalanche i due esseri umani protagonisti vengono osservati da un occhio ciclopico come antiche polveri conservate in un blocco di ghiaccio. Sono Atlanti che camminano all’alba di un nuovo pianeta, dopo essersi caricati sulle spalle la loro millenaria tristezza. Tutto quello che non è sopravvissuto agisce, invisibile, su tutto ciò che invece è rimasto e che viene rievocato come regola, collezione, elenco di possibilità. La danza si pone in una costante tensione verso l’infinito dell’enumerazione, alla ricerca accanita di un esito, di una risoluzione, interrogando la questione del limite e dunque, in ultima istanza, della fine. Gli occhi socchiusi, come a proteggere lo sguardo dalla luce accecante di un colore mai visto, afferrano l’abbaglio di un’estrema possibilità: una terra di sabbia e semi sulla quale qualcuno imparerà nuovamente a muoversi, dopo che anche l’ultimo archivio sarà andato distrutto.