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Il caso Braibanti

30 novembre – 2 dicembre 2018

di Massimiliano Palmese
regia Giuseppe Marini
con Fabio Bussotti e Mauro Conte
musiche live Mauro Verrone

Lo spettacolo

Il caso Braibanti rievoca uno dei più clamorosi scandali giudiziari della storia italiana del Novecento, il processo ad Aldo Braibanti (1922-2014), ex-partigiano torturato dai nazifascisti, artista, filosofo e naturalista.
Nel giugno 1968, mentre nel mondo infiammava la Contestazione, e giovani e intellettuali chiedevano più libertà e più diritti, in Italia si apriva il processo-farsa a Braibanti  “per aver assoggettato fisicamente e psichicamente” il ventunenne Giovanni Sanfratello. In realtà il ragazzo, in fuga da una famiglia autoritaria e bigotta, una volta raggiunta la maggiore età aveva deciso di seguire le proprie inclinazioni ed era andato a vivere a Roma con Braibanti. Non accettando l’omosessualità del figlio, il padre affidò Giovanni agli psichiatri con la speranza di guarirlo dalla “seduzione” che avrebbe subito, e denunciò Braibanti con l’accusa di plagio, un reato considerato già allora “un rudere giuridico”. Molti intellettuali denunciarono lo scandalo di un processo montato ad arte dalla destra più reazionaria del Paese in combutta con esponenti del clero e della “psichiatria di regime”. In favore di Braibanti intervennero Pier Paolo Pasolini, Elsa Morante, Alberto Moravia, Umberto Eco, Marco Pannella, Cesare Musatti, Dacia Maraini. Tutti i loro appelli caddero nel vuoto. Su un testo che Massimiliano Palmese ha costruito su documenti d’archivio, lettere e testimonianze, che ripercorrono tutte le fasi del processo, Giuseppe Marini ha costruito “un oratorio civile” scandito da incursioni di un sax live. Nei panni dei due protagonisti, Fabio Bussotti  e Mauro Conte, che sempre in scena con il musicista Mauro Verronerecitano anche la parte degli avvocati, dei preti, dei genitori, caratterizzandoli nelle rispettive inflessioni dialettali. Ne fuoriesce uno spaccato di Italia provinciale, clericale e omofoba.

“Poco o niente c’è nel testo teatrale – scrive Palmese – che non provenga direttamente dagli atti del processo, o da articoli di giornale con interviste ai protagonisti o commenti che intellettuali e artisti hanno riservato alla discussa sentenza. Le lettere di Braibanti alla madre sono originali, e la poesia finale è dell’autore”. Il testo trova il giusto tono “nell’equilibrio tra satira di costume e dramma psicologico, per tenere insieme le parole degli avvocati, così violente, alle loro tesi, così ridicole. A tratti divertenti sono gli interrogatori e le arringhe, mentre sono agghiaccianti le dichiarazioni omofobiche dei cosiddetti “periti”. Per non parlare delle cartelle cliniche firmate dagli “specialisti in malattie nervose” delle cliniche dove fu rinchiuso il giovane Giovanni Sanfratello”. E conclude che “se oggi il nostro Paese è sempre in coda nell’aggiornarsi in tema di diritti civili, e a distanza di oltre quattro decenni ancora si oppone all’adozione per le coppie omosessuali o a una legge contro l’omofobia, vuol dire che Il caso Braibanti non è pagina del passato ma storia presente, che può e deve, ancora, farci sussultare”.

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