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Il giardino dei ciliegi

25 febbraio – 8 marzo 2020

di Anton Čechov
uno spettacolo di Alessandro Serra

Lo spettacolo

Alessandro Serra a confronto con Il giardino dei ciliegi di Anton Čechov Il teatro magnetico e ancestrale del regista sardo incontra la più grande partitura sinfonica per anime mai scritta: rotture sintattiche, pianti, canti, apnee, russamenti, borbottii e filastrocche, suoni e piccoli fraintendimenti linguistici punteggiano questo spartito per coro, questo testo per una moltitudine, come nella vita.
Il teatro magnetico e ancestrale di Alessandro Serra torna sul palco dell’Argentina per confrontarsi con uno dei grandi classici del teatro mondiale, Il giardino dei ciliegi di Anton Cechov.
Un’opera senza centro, in cui i gesti e le parole dei personaggi che agiscono e parlano si nutrono di quelli agiti e quelle parlate dagli altri. Una partitura sinfonica per coro, per una moltitudine, come nella vita. Tuttavia «il sentimento che pervade l’opera – racconta Alessandro Serra– non ha a che fare con la nostalgia o i rimpianti ma con qualcosa di indissolubilmente legato all’infanzia, come certi organi misteriosi che possiedono i bambini e che si atrofizzano in età adulta. L’incombere della scure sul giardino provoca un senso di dolore sconosciuto, un risvegliarsi di quegli organi non ancora del tutto spenti nella loro funzione vitale. Un dolore che non ha nome e che solo guardando negli occhi il bambino che siamo stati potrà placarsi. Non c’è trama, non accade nulla, tutto è nei personaggi. Una partitura per anime in cui i dialoghi sono monologhi interiori che si intrecciano e si attraversano. Un unico respiro, un’unica voce. Non vi è alcun tono elegiaco, è vita vera distillata: si dice, si agisce. Un valzerino allegro in una commedia intessuta di morte. Comicità garbata, mai esibita, perfetto contrappunto in un’opera spietata e poetica. I personaggi ridono e si commuovono spesso, il che non significa che si debba piangere davvero, è piuttosto uno stato d’animo, scrive Čechov in una lettera, che deve trasformarsi subito dopo in allegria. Velando di lacrime gli occhi dei suoi personaggi Čechov suggerisce la visione sfocata della realtà sensibile, una realtà spogliata dai contorni. Come i vetri delle vecchie case, opachi, deformi, pieni di impurità fornivano una versione estetica della vita oltre la finestra, così le lacrime agli occhi erodono le forme: gli oggetti e le persone sfumano l’uno nell’altro, i colori si sfaldano in mezzetinte, i lineamenti e le voci si disciolgono. Tanto che a un certo punto non si sa più chi è che parla, se una voce proveniente da un’altra stanza o noi stessi con le parole di un altro. La scrittura stessa agevola questo dissolversi del centro e del focus: l’opera è cosparsa di piccoli impedimenti e fraintendimenti, anche linguistici, rotture sintattiche, pianti, canti, apnee, russamenti, borbottii e filastrocche, e poi i suoni. Tutto concorre a una partitura musicale che, scrive Mejerchol’d, è come una sinfonia di Čajkovskij».

Oltre lo spettacolo

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