La commedia della vanità
29 gennaio – 9 febbraio 2020
di Elias Canetti
traduzione Bianca Zagari
regia Claudio Longhi
29 gennaio – 9 febbraio 2020
di Elias Canetti
traduzione Bianca Zagari
regia Claudio Longhi
Claudio Longhi, in continuità con alcuni dei suoi ultimi lavori fra cui La resistibile ascesa di Arturo Ui, Il ratto d’Europa e Istruzioni per non morire in pace, accumunati tutti da una riflessione sull’idea di Europa nel nostro presente e nei primi anni del secolo scorso e sui rischi di uno sbandamento dittatoriale, porta in scena Elias Canetti, lo scrittore premio Nobel per la Letteratura nel 1981, che con la sua voce ha segnato profondamente il Novecento. «Per i suoi lavori caratterizzati da un’ampia prospettiva, ricchezza di idee e potere artistico», recita così la motivazione che ha accompagnato il premio.
Favola nera, racconto allegorico, distopia, La Commedia della vanità, è il testo scritto nel 1934 del premio Nobel per la Letteratura Elias Canetti, che oggi Claudio Longhi riporta in vita con un cast di due musicisti e ventitré interpreti, in una scena le cui fattezze ricordano un ambiguo circo-cabaret dal sapore rétro. La commedia della vanità racconta di una comunità il cui governo decide di vietare la vanità, e di punirla con la pena di morte. Ritratti, foto, specchi: tutto ciò che può in qualche modo farsi strumento di autocelebrazione viene bruciato in un grande falò, acclamato a gran voce dalla massa, che però di lì a poco si ritroverà nell’incubo della dittatura. In futuro ricorderemo questa come l’epoca dei selfie, pratica onnipresente tra narcisismo e autodeterminazione. Oggi Claudio Longhi ci accompagna in una densa riflessione sull’ambiguità e sul potere dell’auto-rappresentazione: esiste una possibilità di riconoscerci in una nostra immagine, senza dissolverci nella vacuità di quello stesso riflesso? Claudio Longhi è regista, docente universitario, saggista, critico e direttore artistico. Fautore di un teatro comunitario e politico, al percorso accademico affianca da sempre l’impegno teatrale, lavorando nel campo della regia, della formazione del pubblico e della ricerca. Dal 2017 è direttore di Emilia Romagna Teatro Fondazione.
Note di Claudio Longhi
Nel gran circo del potere: zibaldone di pensieri intorno a Commedia della vanità
La messa in scena di Commedia della vanità si pone in forte continuità, concettuale più ancora che stilistica, con altri progetti di questi ultimi anni: La resistibile ascesa di Arturo Ui di Bertolt Brecht (2011), Il ratto d’Europa (2013) e Istruzioni per non morire in pace di Paolo Di Paolo (2016). Una riflessione comune lega questi lavori: l’indagine sull’identità europea, sull’esplosione dell’idea di Europa nei primi anni del Novecento (e nel nostro presente) e sui rischi di sbandamento dittatoriale tramati nella storia del nostro vecchio continente. Comune a questi lavori è lo sguardo politico sulla realtà che viviamo, attraverso il recupero della storia dell’Europa ma anche attraverso il confronto con le grandi voci della tradizione culturale del nostro continente. Da qui è scoccata la scintilla che ci ha portato ad aprire un focus su Elias Canetti – un autore apolide, una figura che ha percorso trasversalmente tutto il Novecento.
Commedia della vanità, dramma scritto fra il 1933 e il 1934, è un’opera giovanile di Canetti – come d’altronde lo sono tutti i testi in cui l’autore si dedica alla scrittura creativa: tre drammi (Nozze, Commedia della vanità e Vite a scadenza) e un romanzo (Auto da fè), tutti concepiti a cavallo tra gli anni Venti e Trenta (solo Vite a scadenza è del 1952). Il resto della produzione di questo autore straordinario, nato nel 1905, ha infatti carattere saggistico, diaristico e aforistico. Sebbene non abbia ancora la costruzione mentale solida, lucida e precisa della grande opera della maturità, Commedia – come anche Nozze, che è quasi un’altra faccia della stessa medaglia – è una sorta di laboratorio in cui germinano tutte le problematiche che lo scrittore affronterà sistematicamente dentro la sua opera più ambiziosa: il saggio Massa e Potere, pubblicato venticinque anni più tardi. In una realtà distopica, ma così terribilmente vicina all’Europa degli anni Trenta come a quella attuale, un editto bandisce la produzione e riproduzione delle immagini e l’uso degli specchi; attraverso questo pretesto Canetti riflette sulla relazione tra il potere, la morte e il binomio identità-massa.
Nella sua versione integrale, il copione avrebbe dato luogo a uno spettacolo di circa sette ore. Abbiamo lavorato a una sorta di “riduzione in pianta”, senza intaccare la struttura drammaturgica, né trasporre o attualizzare la vicenda; l’unico grande intervento che abbiamo operato si riassume in una scelta di “drammaturgia seconda” – o si potrebbe dire di scrittura scenica. In maniera evidente, alcune figure del testo incarnano i possibili diversi stadi di evoluzione del potere: si tratta di Joseph Barloch, Joseph Garaus e Heinrich Föhn. Per esplicita indicazione dell’autore, la fisionomia dei primi due è identica; più di una scena del testo argomenta questo continuo atto di riconoscimento reciproco, istituendo il gioco dello specchio. Unendo suggestioni tratte da Massa e Potere a questa peculiare indicazione di Canetti, abbiamo condensato i tre personaggi affidandoli a uno stesso attore e creando così una sorta di figura trasversale che, come un grande burattinaio, indossa i panni ora di uno ora dell’altro, entrando e uscendo continuamente dal ruolo e serpeggiando all’interno di tutto il testo, animando anche gli altri personaggi e rendendoli emanazioni del potere stesso. Seguendo una logica speculare, sulle tre figure femminili di Anna Barloch, Louise e Leda Frisch, legate al trittico dei protagonisti, abbiamo operato lo stesso intervento, consegnandole a una sola attrice.
In un conturbante intreccio fatto di continui ribaltamenti dialettici, questa coppia di interpreti va a incarnare i diversi volti del potere, ricostruendone una sorta di diagramma evolutivo darwiniano. Barloch corrisponde a una fase primordiale e animalesca dell’autorità (spogliandosi e mangiando voracemente, pratica una forte ostensione del proprio corpo); l’accidia o frustrazione del potere è espressa da Garaus, che aspira ad essere il grande dittatore senza in fondo riuscire a dar vita alle proprie aspirazioni; Föhn è una sorta di incarnazione degenere del Superuomo nietzschiano. Intorno il proteiforme coro/massa di una comunità sull’orlo del collasso.
Non diversamente dal Gadda di Eros e Priapo, Canetti con Commedia fornisce una sorta di psicanalisi delle pulsioni erotiche che alimentano il culto del potere.
La psicoanalisi del potere, o la sua indagine storica, approda – però – in Commedia anche a una sorta di metafisica o teologia del potere. Barloch, Garaus e Föhn sembrano di fatto soggiogati da una sorta di potere altro. L’editto contro le immagini che apre il dramma giunge, in effetti, per volontà di autorità superne, mai nominate. È evidente, qui, il forte radicamento di Canetti nella cultura ebraica. Per raccontare ed esplorare questo anfratto di Commedia abbiamo dunque fatto ricorso alla musica giudaica: nello spettacolo la citazione del canto religioso del popolo eletto è praticata proprio per evocare quell’orizzonte mistico e metastorico su cui si staglia l’allegoria tutta storica del testo.
Traendo ispirazione da Lola Montès (il celeberrimo film di Max Ophüls), la cui vicenda è tutta ambientata in un circo, anche nella nostra Commedia della vanità la storia si dipana in una cornice circense: a partire da una potente suggestione contenuta nel primo monologo del dramma, il luogo deputato dello spettacolo ci è infatti subito parso un tendone ambulante scalcagnato. Nell’incipit del testo, il banditore Wenzel Wondrak si presenta agli occhi degli spettatori nelle vesti di un «pagliaccio». Le motivazioni di questa scelta circense sono tante. Proponendo al suo pubblico sequenze di azioni rischiose, il circo intrattiene un dialogo continuo con la morte – figura nevralgica nell’immaginario di Canetti. Il circo consente inoltre di dar sfogo al grottesco che cova nel testo, dando corpo allo spirito di ribaltamento carnevalesco proprio di questa drammaturgia così violentemente sinistra. Infine, a chiamare la dimensione circense è la struttura stessa della commedia, non di rado sviluppata per “numeri” in modo non diverso da un varietà. A voler essere precisi, sul piano drammaturgico Commedia della vanità ha una struttura composita e anfibia: la prima parte è una parade; la seconda si capovolge in uno straniato dramma borghese; la terza esplode in una convulsa pantomima espressionista che si declina come irridente parodia tragica.
Uno snodo nevralgico del pensiero teatrale canettiano emerge chiaramente in Commedia della vanità, quello della “maschera acustica”. Radicata in Canetti è l’idea che il carattere di un individuo si leghi visceralmente alla sua voce e all’articolazione del linguaggio che gli è propria. La maschera acustica non si risolve, in effetti, in una semplice voce, ma comporta una precisa cadenza di suono, una sintassi e un modo di costruzione della frase che – di fatto – fondano il personaggio. È evidente, in questo senso, l’influsso esercitato su Canetti da Karl Kraus, beffardo censore della Finis Austriae, operante come una sorta di “magnetofono” tutto teso a intercettare e amplificare le voci captate per strada, nei caffè, a teatro… Se la si legge da questo punto di vista, Commedia è a ben vedere una sapiente partitura musicale, giocata su una sofisticatissima alternanza di movimenti con punte di virtuosismo mozzafiato – come il vertiginoso concertato, degno del miglior Rossini, su cui si chiude la prima parte del testo. Coscienti del fatale tradimento indotto dalla traduzione dal tedesco, che inevitabilmente stravolge e riscrive le strutture sonore della drammaturgia originale, siamo comunque andati alla ricerca di questa partitura, inserendo anche le musiche come elemento costruttivo dello spettacolo proprio per il tipo di impasto acustico che generano. In particolare, nel pensare alle musiche si è scelto di lavorare sul repertorio del cymbalon – strumento tipicamente ungherese che arriva a Vienna e di lì irradia in tutto l’Impero (in fondo, patria dell’autore) – e su quello del violino, la cui grana sonora vibra inquietantemente all’unisono con la voce umana.
Battendo i sentieri della musica, appare chiaro come, al di là dell’impressione caotica generata dalla prima lettura, l’intreccio di Commedia si regga su una struttura complessa, cangiante e sfuggente, simile a quella di un diamante, le cui facce sono tagliate con precisione millimetrica. Rigorose geometrie speculari reggono lo sviluppo del testo, legando tra loro le scene in un sistema di couplets calibratissimo. Una sequenza risponde all’altra in un intricato labirinto di rimandi, creando continui rovesciamenti di punti di vista e di logiche. L’ambiguità, che nel testo aleggia sovrana, investe anche la riflessione sull’immagine, portandoci a ripensare il nostro oggi. Per un verso è evidente nel testo la critica alla rappresentazione come strumento di auto-riconoscimento, alla propensione umana a far dipendere la propria identità dalla rappresentazione del sé, con la quale, come ci spiega Föhn, ognuno di noi vive in stato «coniugale» fin dalla nascita. Ed è una critica aspra, quella di Canetti, che non può lasciare indifferente il nostro presente, regno assoluto e incondizionato del selfie. Eppure il testo, nella sua crociata iconoclasta, ci induce a riflettere pure su come le dinamiche rappresentative siano effettivamente costitutive della dimensione identitaria. L’astinenza da immagine induce al dissolvimento dell’io, ma questo dissolvimento esaspera, per converso, il bisogno di io – aprendo la strada a sbandamenti populistici e autoritaristico-dittatoriali. Nella parte finale della drammaturgia vanno in scena individui che, dopo anni di vessazioni e negazioni della rappresentazione, hanno perso la propria identità e che proprio per questo si dedicano all’erezione della statua di un nuovo dittatore. La costruzione dell’identità si è ormai trasformata in loro in un bisogno perverso.
Claudio Longhi
prima ore 20.00
martedì e venerdì ore 20.00
mercoledì e sabato ore 19.00
giovedì e domenica ore 17.00
durata 3 ore e 45 minuti complessivi
(prima parte 1h 5′ – primo intervallo 10′
seconda parte 1h 5′ – secondo intervallo 15′
terza parte 1h 10′
Sala Squarzina, 31 gennaio 2020
ROGHI DI LIBRI
da Canetti alla Pecora Elettrica
Assemblea cittadina sui presidi culturali a Roma
in collaborazione con Dominio Pubblico
ore 17.00 ingresso libero con prenotazione obbligatoria
prenota
partecipano
Claudio Longhi (regista de La Commedia delle vanità)
Lisa Natoli (regista)
Christian Raimo (assessore III Municipio) / collettivo Grande come una città
Alessandra Artusi e Danilo Ruggeri (La pecora elettrica)
Tommaso De Angelis (Zalib)
e alcuni membri della rete di associazioni culturali di Centocelle
Tiziano Panici (Dominio Pubblico)
coordina Graziano Graziani
Elias Canetti ha scritto La commedia delle vanità tra il 1933 e il 1934 ispirandosi ai bücherverbrennungen, i roghi di libri nazisti. Partendo da questo spunto, il Teatro di Roma ha voluto organizzare un incontro assemblea che racconterà la genesi della commedia ma rifletterà anche sui “roghi di libri contemporanei”, da quelli reali – come il caso della libreria indipendente Pecora Elettrica – a quelli metaforici dei tanti presidi culturali – teatri, librerie, spazi sociali – che chiudono a Roma a causa di vari fattori, da quelli economici a quelli criminali all’assenza di un piano di sostegno ai presidi culturali da parte delle politiche locali e nazionali.
Un momento di incontro pubblico per discutere, partendo da una commedia di 80 anni fa, su cosa sta succedendo oggi nella città.
Sala Squarzina, 8 febbraio 2020
BRUNCH CANETTI
Il frutto del cuoco (banchetto-spettacolo)
Una proposta conviviale, che unisce il modello della “cena sociale” e del convivio filosofico – in cui una comunità si ritrova a consumare un pasto – a letture sceniche appositamente preparate, che si inframezzano ai vari momenti del pasto. Il titolo è un richiamo beffardo a Il frutto del fuoco, una delle opere più rappresentative di Elias Canetti, in cui si sperimenta una modalità fortemente partecipativa in cui quattro attori e attrici interpreti dello spettacolo coinvolgono gli spettatori/commensali in una drammaturgia per voci e corpi che attraversa le tematiche care a questo grande autore.
con Michele Dell’Utri, Simone Francia, Diana Manea e Jacopo Trebbi
ore 12.00 ingresso libero con prenotazione obbligatoria
prenotazione obbligatoria a atelier@teatrodiroma.net
gli spettatori sono invitati a portare una pietanza da condividere con gli altri commensali (sia dolce che salata)
In collaborazione con Dominio Pubblico
con Fausto Russo Alesi, Donatella Allegro, Michele Dell’Utri
Simone Francia, Diana Manea, Eugenio Papalia, Aglaia Pappas
Franca Penone, Simone Tangolo, Jacopo Trebbi
e con Rocco Ancarola, Simone Baroni, Giorgia Iolanda Barsotti
Oreste Leone Campagner, Giulio Germano Cervi, Brigida Cesareo
Elena Natucci, Marica Nicolai, Nicoletta Nobile, Martina Tinnirello
Cristiana Tramparulo, Giulia Trivero, Massimo Vazzana
violino Renata Lacko
cimbalom Sándor Radics
drammaturgo assistente Matteo Salimbeni
assistente alla regia Elia Dal Maso
assistente ai costumi Rossana Gea Cavallo
preparazione al canto Cristina Renzetti
scene costruite nel Laboratorio di Emilia Romagna Teatro Fondazione
foto di scena Serena Pea
si ringraziano Giovanni Zagari e Giovanna Cermelli
si ringrazia per la collaborazione Luca Napoli
produzione Emilia Romagna Teatro Fondazione – Teatro Nazionale
Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Fondazione Teatro della Toscana, LAC Lugano Arte e Cultura
nell’ambito del progetto “Elias Canetti. Il secolo preso alla gola”