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Trincea

16 – 18 maggio 2016

scritto e interpretato da Marco Baliani
regia Maria Maglietta

Lo spettacolo

La scena è una grande pagina bianca, uno spazio sospeso, un luogo che attende di vivere. In questo tempo inceppato in un puro e denso presente, il corpo di un qualsiasi soldato, anonimo e senza una precisa nazionalità, inizia a muoversi con improvvisi vuoti dell’anima. E allora riaffiorano schegge di vita nel luogo più emblematico di questa guerra lontana cento anni: la “trincea” della Prima guerra mondiale. Movimento, suono, immagini, parole per mostrare l’indicibile, la follia, la paura, la perdita di identità di quella guerra che trasforma il singolo soldato in ingranaggi di un’enorme fabbrica produttrice di morte. Su tutto la fame, di cibo, di acqua, di umanità, di relazioni per un viaggio dentro la notte della nostra “modernità”. Uno spettacolo aspro, crudo, a tratti grottesco, dove il soldato è un corpo narrante, tragico baluardo di un disperato istinto di sopravvivenza, sottoposto alla casualità di un morire inutile e atroce. Non c’è un’unica storia, non c’è il racconto di un solo uomo, ma diversi istanti di vita di uomini “comuni” nelle condizioni disumane della prima guerra mondiale.

“Sono trascorsi cento anni dal pri­mo conflitto mondiale.

Io vorrei provare a toccare un pic­colo punto di quell’immensa cata­strofe, un solo corpo, quello di un qualsiasi soldato, anonimo, non ap­partenente a una precisa naziona­lità, e toccare quel corpo nel luogo più emblematico di quella guerra, la trincea.

Vorrei tentare di essere laggiù, in quel punto di una trincea di molti anni fa, ed esserci prima di tutto fisicamente, come corpo, in una forma di mimesi totale, in modo da essere così immerso nella dimen­sione dell’orrore e della sua gratuità da percepire almeno per un istante “il tipo di esistenza” di quel soldato.

Per il soldato in trincea il tempo si assolutizza in un puro, denso pre­sente, un tempo inceppato nella minuta quotidianità della soprav­vivenza, fatto di gesti folli divenu­ti normali, di azioni compiute per inerzia, senza speranza di cambia­menti. La percezione del tempo, im­pedisce alla parola di farsi discorso, essa gira in un flusso vegetativo o semidormiente, si etilizza, ubriaca di terrore o di fame o comunque di mancanze. La narrazione non può più espletarsi in un flusso tempo­rale continuo, lineare e accertato da un inizio e una fine, ma viene spez­zata, impossibilitata a compiersi, gli improvvisi vuoti dell’anima non sono più ricomponibili né colmabili in parole, il vivere diviene un inar­restabile fluire di frammenti, come frammentato appare il Tempo per chi in ogni istante è sottoposto alla casualità di un morire inutile e atro­ce. L’individuo perde la coscienza della propria individualità, il sin­golo soldato diviene ingranaggio di una immensa fabbrica produttrice di morte, è un pezzo di ricambio, un pezzo di artiglieria fatto di carne umana.

La Prima guerra mondiale speri­menta su larga scala una forma di totale assoggettamento dell’uomo, la sua riduzione ad automa, fantoc­cio, cosa. È da qui, da quel momen­to storico, che si inaugura in occi­dente la possibilità di un controllo biopolitico del corpo umano, in for­ma industriale, di massa.  Aprendo la strada ai tanti totalitarismi del terrore del nostro Novecento.”

Marco Baliani

Note di regia

La scena è una grande pagina bianca, uno spazio sospeso, un luogo che attende di vivere. È anche una delle “gabbie” di Francis Bacon, artista a cui ci siamo ispirati nella ideazione dello spettacolo.

La gabbia permette di isolare uno spazio tempo astratto in cui poter “dissezionare” le presenze umane che la agiscono. In questo spazio il corpo di un soldato inizia a muo­versi e allora, come grattando nella scorza del tempo, riaffiorano scheg­ge di vita, luoghi, azioni, sempre in una forma materica, concreta. Il soldato è un corpo narrante, tragico baluardo di un disperato istinto di sopravvivenza, e non racconta di un solo uomo, ma ci restituisce i diver­si istanti di vita di uomini “comuni” nelle condizioni disumane della Prima guerra mondiale.

Le immagini si susseguono a volte sollecitate da un suono, a volte cre­ate dalle parole, altre volte ancora guidano il corpo del soldato o ne sono guidate, in una tessitura di lin­guaggi l’un l’altro compenetranti, senza mai cedere a una descrizione illustrativa.

I tanti corpi che appaiono e si dis­solvono nello spazio ci restituiscono la frammentarietà dell’esistenza umana in trincea, lo spaesamento, la solitudine, la perdita di indivi­dualità.

Non c’è una storia, non c’è un unico racconto, ci sono squarci di esisten­ze che la “gabbia” rende precarie, in bilico, sempre in procinto di per­dersi e annullarsi.

In quella terra di nessuno il soldato scopre che il proprio sentirsi anco­ra un essere umano non serve più, anzi diviene drammaticamente un limite, un peso.

La gigantesca macchina industriale della guerra ha scardinato i valori che fino allora avevano governato la vita degli esseri umani.

Maria Maglietta

Oltre lo spettacolo

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