Intervista a ricci/forte di Anna Bandettini

Gianni Forte e Stefano Ricci, ricci/forte, faccia da hipster, aria da timidi, sono registi e autori quarantenni di successo per come raccontano con delirante fisicità il nostro presente, le trappole morali, il sesso e il bisogno d’amore. In Francia, Russia, Brasile li amano; presto andranno in Messico, Singapore, Barcellona. (...) Il nuovo e atteso PPP Ultimo inventario prima di liquidazione è un amaro sfogo sull’omologazione e il medioevo culturale del nostro Paese.

L’industria culturale ha bisogno di omologarsi per andare avanti. (...) L’omologazione espressiva diventa una forma di potere fascista anche in società che non lo sono. La diffidenza verso ciò che è nuovo rispetto alle convenzioni. Che possibilità ha oggi un artista di esprimersi se non si appiattisce agli schemi in una società che non considera l’arte e la cultura come patrimonio per crescere?

Parlate di voi?

Non solo. Anche se perfino in Russia abbiamo avuto le prime pagine dei giornali, mentre nel nostro paese siamo ancora gli enfant terrible o i trasgressori. Ma noi parliamo solo col nostro linguaggio. E comunque la diversità della proposta culturale dovrebbe essere un modo per nutrire le persone. Da noi diventa isolamento intellettuale, il sentirsi stranieri nel tuo stesso paese. Pasolini diceva di sentirsi fuori menu, fuori cornice. E da tutta la sua opera emerge una profonda solitudine.

Il nuovo spettacolo tratta di tutto questo?

Fin dal titolo: andiamo a vedere cosa è rimasto sugli scaffali di questo teatro sfasciato, affrontiamo il discorso della comunicazione rispetto alla sordità di questo paese.
Siamo partiti da Petrolio per arrivare all’opera completa di Pasolini elaborando un testo nostro dove c’è anche un pezzo dal Peer Gynt di lbsen, dove si parla di imposizioni e responsabilità individuali.

Pasolini-ricci/forte: uno già si immagina nudi, sesso, omosessualità.

Niente di tutto questo. Il cast è quasi tutto femminile e internazionale. Sono la società, figurine perse, cui si contrappone l’isolamento di un “io”, Giuseppe Sartori, in un viaggio introspettivo, una via crucis per capire se ha ancora valore esprimersi con l’arte o abdicare. È ambientato in una grotta ancestrale abitata dai segnali della nostra società: una distesa di copertoni bianchi che ci sommergono. Per noi è lo spazio privato che tutti gli artisti devono proteggere per affrontare “il sole delle tre del pomeriggio”, come diceva Pasolini, l’ora più brutta perché il sole ti costringe a vedere quanto siamo brutti.

Per voi meglio apocalittici che integrati, come diceva Eco?

Ma con una gemma di speranza. È la volontà caparbia e disperata di resistere alla letargia.